Ognuno ha la sua scena cult. La mia è l’irresistibile balletto di Jesus Quintana (un John Turturro in tutina viola con palla da bowling in tinta) sulle note di Hotel California, versione Gipsy Kings. Ma i fratelli Coen de Il Grande Lebowski hanno agganciato, da quel remoto 1998, generazioni e generazioni di fan sfegatati, senza barriere di lingua e di età. C’è perfino una convention ad hoc, il Lebowski Fest, che puntualmente raduna ogni anno i fedeli. La Cineteca di Bologna festeggia il venticinquesimo anniversario riportando in sala il film (dal 6 novembre), restaurato in 4K Universal Pictures. I cineclub sono estinti: il loro Il Cinema Ritrovato è un salvagente.

La formula magica che ha portato il Drugo, Jeffrey ‘The Dude’ Lebowski, allo status di cult è misteriosa. John Goodman (il Walter veterano del Vietnam del film) diceva che il film “è scritto maledettamente bene”. Ma quando è uscito il film dei Coen è stato un flop di incassi e di critica. Arrivando dopo l’Oscar - e il nitido rigore - di Fargo, era un’eruzione imprevedibile, liberatoria e sboccata. Col suo assortimento di bermuda-mutanda, di sandali di plastica, di vestaglie sdrucite, White Russian (cocktail a base di wodka e latte) e spinelli, il disoccupato a oltranza Jeff Bridges, col suo catorcio di macchina, da reliquia della controcultura fine anni 60 è diventato una icona senza tempo.

Dentro, d’accordo, c’è la ‘mitologia dell’anima’ dei Coen, un bric-à-brac di amori letterari e cinematografici, dal Marlowe di Raymond Chandler (la detective story parodiata è una rilettura sorniona de Il Grande Sonno) alle coreografie di Busby Berkeley (quelle di Quarantaduesima Strada diventano un sogno lisergico, un trip da acido), dagli stereotipi western fino alla singolare amicizia dei fratelli con l’anti-pacifista regista John Milius, che ha ispirato il personaggio di Goodman. Il fulcro, anche estetico, è il bowling, il più ozioso, rituale e inutilmente mascolino degli sport.

Io però mi spiego diversamente l’ostinata resistenza del film al tempo e alle mode. Il Drugo, The Dude, è un obiettore di coscienza, non alla guerra (quella del Golfo, nei primi ’90 del film, è agli esordi) ma al Primo Comandamento di quell’America-mondo e ai suoi corollari: fai soldi, cioè e falli vedere a tutti. Lebowski è il personale supereroe cifra Coen, portatore di una disobbedienza che non è civile ma esistenziale, l’emblema di quel Droit à la Paresse (diritto alla pigrizia, ma nel senso del non asservimento al lavoro) anticapitalistico e battagliero rivendicato ai suoi tempi da Paul Lafargue. Come i Coen, è cresciuto con la generazione degli hippie e dei loro valori, è un sopravvissuto, ma allo stesso tempo è eterno. Ogni outsider, ogni resistente passivo a oltranza ai tempi che corrono, è un Lebowski .

Profeticamente, i Coen hanno messo al centro del film un terzetto di amici inseparabili (non solo di bowling) post-ideologici. Non c’è niente di più attuale: ognuno di noi ha imparato a emanciparsi dalle vecchie etichette e dai pregiudizi di parte. Walter-Goodman viaggia con la pistola in tasca ed è un nostalgico del Vietnam, l’unica guerra ‘da veri uomini’. Il Drugo, al contrario - come rivela a letto a Julianne Moore, ma è facile farsi sfuggire i riferimenti storici - è stato uno dei firmatari del ‘Port-Huron Statement’, manifesto della New Left pacifista, antinucleare e radical anni ‘60, ed era nel gruppo dei The Seattle Seven, una leggenda militante. Steve Buscemi è l’‘inutile’ di cui nessun gruppo può fare a meno. Ma sono tutti marginali, periferia calpestata del Sogno Americano: è questo il collante.

Newyorchesi da sempre, i Coen hanno scritto, molto prima di Quentin Tarantino, il requiem di un’era geologica nel territorio eretico della controcultura e delle sub-culture americane, la California meridionale. Ma lo hanno fatto con leggerezza, senza prosopopea. “C’è una certa logica nel film - dicono - ma è quella provocata dalle droghe leggere”. La ‘canna’, insomma, come pretesto per ribaltare i codici. Le piste false, i rapimenti fasulli e i riscatti per speculazione appartengono al loro cinema quanto alle storie di Raymond Chandler: sono il dark side della facciata rispettabile e miliardaria, il successo con i suoi piedi d’argilla. Il Grande Sonno è del 1939, il film di Howard Hawks del 1946. Ma Fargo, cinquant’anni dopo, raccontava le stesse cose.

Dice il brano di Bob Dylan in apertura del film, The Man in Me: “L’uomo che è in me a volte si nasconde / per non essere visto ma solo perché / non vuole essere trasformato in una macchina”. “Drugo sa aspettare (The Dude abites) - è l’epitaffio finale, che per i Coen ha il volto e la voce del cowboy Sam Elliott - è bello sapere che uno come lui è in giro”. Siamo tutti Drugo, e come lui abbiamo imparato, da resistenti gandhianamente passivi, ad aspettare.

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Ognuno ha la sua scena cult. La mia è l’irresistibile balletto di Jesus Quintana (un John Turturro in tutina viola con palla da bowling in tinta) sulle note di Hotel California, versione Gipsy Kings. Ma i fratelli Coen de Il Grande Lebowski hanno agganciato, da quel remoto 1998, generazioni e generazioni di fan sfegatati, senza barriere di lingua e di età. C’è perfino una convention ad hoc, il Lebowski Fest, che puntualmente raduna ogni anno i fedeli. La Cineteca di Bologna festeggia il venticinquesimo anniversario riportando in sala il film (dal 6 novembre), restaurato in 4K Universal Pictures. I cineclub sono estinti: il loro Il Cinema Ritrovato è un salvagente.

La formula magica che ha portato il Drugo, Jeffrey ‘The Dude’ Lebowski, allo status di cult è misteriosa. John Goodman (il Walter veterano del Vietnam del film) diceva che il film “è scritto maledettamente bene”. Ma quando è uscito il film dei Coen è stato un flop di incassi e di critica. Arrivando dopo l’Oscar - e il nitido rigore - di Fargo, era un’eruzione imprevedibile, liberatoria e sboccata. Col suo assortimento di bermuda-mutanda, di sandali di plastica, di vestaglie sdrucite, White Russian (cocktail a base di wodka e latte) e spinelli, il disoccupato a oltranza Jeff Bridges, col suo catorcio di macchina, da reliquia della controcultura fine anni 60 è diventato una icona senza tempo.

Dentro, d’accordo, c’è la ‘mitologia dell’anima’ dei Coen, un bric-à-brac di amori letterari e cinematografici, dal Marlowe di Raymond Chandler (la detective story parodiata è una rilettura sorniona de Il Grande Sonno) alle coreografie di Busby Berkeley (quelle di Quarantaduesima Strada diventano un sogno lisergico, un trip da acido), dagli stereotipi western fino alla singolare amicizia dei fratelli con l’anti-pacifista regista John Milius, che ha ispirato il personaggio di Goodman. Il fulcro, anche estetico, è il bowling, il più ozioso, rituale e inutilmente mascolino degli sport.

Io però mi spiego diversamente l’ostinata resistenza del film al tempo e alle mode. Il Drugo, The Dude, è un obiettore di coscienza, non alla guerra (quella del Golfo, nei primi ’90 del film, è agli esordi) ma al Primo Comandamento di quell’America-mondo e ai suoi corollari: fai soldi, cioè e falli vedere a tutti. Lebowski è il personale supereroe cifra Coen, portatore di una disobbedienza che non è civile ma esistenziale, l’emblema di quel Droit à la Paresse (diritto alla pigrizia, ma nel senso del non asservimento al lavoro) anticapitalistico e battagliero rivendicato ai suoi tempi da Paul Lafargue. Come i Coen, è cresciuto con la generazione degli hippie e dei loro valori, è un sopravvissuto, ma allo stesso tempo è eterno. Ogni outsider, ogni resistente passivo a oltranza ai tempi che corrono, è un Lebowski .

Profeticamente, i Coen hanno messo al centro del film un terzetto di amici inseparabili (non solo di bowling) post-ideologici. Non c’è niente di più attuale: ognuno di noi ha imparato a emanciparsi dalle vecchie etichette e dai pregiudizi di parte. Walter-Goodman viaggia con la pistola in tasca ed è un nostalgico del Vietnam, l’unica guerra ‘da veri uomini’. Il Drugo, al contrario - come rivela a letto a Julianne Moore, ma è facile farsi sfuggire i riferimenti storici - è stato uno dei firmatari del ‘Port-Huron Statement’, manifesto della New Left pacifista, antinucleare e radical anni ‘60, ed era nel gruppo dei The Seattle Seven, una leggenda militante. Steve Buscemi è l’‘inutile’ di cui nessun gruppo può fare a meno. Ma sono tutti marginali, periferia calpestata del Sogno Americano: è questo il collante.

Newyorchesi da sempre, i Coen hanno scritto, molto prima di Quentin Tarantino, il requiem di un’era geologica nel territorio eretico della controcultura e delle sub-culture americane, la California meridionale. Ma lo hanno fatto con leggerezza, senza prosopopea. “C’è una certa logica nel film - dicono - ma è quella provocata dalle droghe leggere”. La ‘canna’, insomma, come pretesto per ribaltare i codici. Le piste false, i rapimenti fasulli e i riscatti per speculazione appartengono al loro cinema quanto alle storie di Raymond Chandler: sono il dark side della facciata rispettabile e miliardaria, il successo con i suoi piedi d’argilla. Il Grande Sonno è del 1939, il film di Howard Hawks del 1946. Ma Fargo, cinquant’anni dopo, raccontava le stesse cose.

Dice il brano di Bob Dylan in apertura del film, The Man in Me: “L’uomo che è in me a volte si nasconde / per non essere visto ma solo perché / non vuole essere trasformato in una macchina”. “Drugo sa aspettare (The Dude abites) - è l’epitaffio finale, che per i Coen ha il volto e la voce del cowboy Sam Elliott - è bello sapere che uno come lui è in giro”. Siamo tutti Drugo, e come lui abbiamo imparato, da resistenti gandhianamente passivi, ad aspettare.

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Siamo tutti Lebowski. Come Drugo abbiamo imparato, da resistenti gandhianamente passivi, ad aspettare

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07.11.2023

Ognuno ha la sua scena cult. La mia è l’irresistibile balletto di Jesus Quintana (un John Turturro in tutina viola con palla da bowling in tinta) sulle note di Hotel California, versione Gipsy Kings. Ma i fratelli Coen de Il Grande Lebowski hanno agganciato, da quel remoto 1998, generazioni e generazioni di fan sfegatati, senza barriere di lingua e di età. C’è perfino una convention ad hoc, il Lebowski Fest, che puntualmente raduna ogni anno i fedeli. La Cineteca di Bologna festeggia il venticinquesimo anniversario riportando in sala il film (dal 6 novembre), restaurato in 4K Universal Pictures. I cineclub sono estinti: il loro Il Cinema Ritrovato è un salvagente.

La formula magica che ha portato il Drugo, Jeffrey ‘The Dude’ Lebowski, allo status di cult è misteriosa. John Goodman (il Walter veterano del Vietnam del film) diceva che il film “è scritto maledettamente bene”. Ma quando è uscito il film dei Coen è stato un flop di incassi e di critica. Arrivando dopo l’Oscar - e il nitido rigore - di Fargo, era un’eruzione imprevedibile, liberatoria e sboccata. Col suo assortimento di bermuda-mutanda, di sandali di plastica, di vestaglie sdrucite, White Russian (cocktail a base di wodka e latte) e spinelli, il disoccupato a oltranza Jeff Bridges, col suo catorcio di macchina, da reliquia della controcultura fine anni 60 è diventato una icona senza tempo.

Dentro, d’accordo, c’è la ‘mitologia dell’anima’ dei Coen, un bric-à-brac di amori letterari e cinematografici, dal Marlowe di Raymond Chandler (la detective story parodiata è una rilettura sorniona de Il Grande Sonno) alle coreografie di Busby Berkeley (quelle di Quarantaduesima Strada diventano un sogno lisergico, un trip da acido), dagli stereotipi western fino alla singolare amicizia dei fratelli con l’anti-pacifista regista John Milius, che ha ispirato il personaggio di Goodman. Il fulcro, anche estetico, è il bowling, il più ozioso, rituale e inutilmente mascolino degli sport.

Io però mi spiego diversamente l’ostinata resistenza del film al tempo e alle mode. Il Drugo, The Dude, è un obiettore di coscienza, non alla guerra (quella del Golfo, nei primi ’90 del film, è agli esordi) ma al Primo Comandamento di quell’America-mondo e ai suoi corollari: fai soldi, cioè e falli vedere a tutti. Lebowski è il personale supereroe cifra Coen, portatore di una disobbedienza che non è civile ma esistenziale, l’emblema di quel Droit à la Paresse (diritto alla........

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