«Tremate, tremate: le streghe son tornate». Che bello sarebbe, se fosse di nuovo questo lo slogan utilizzato da migliaia di donne che insieme, e unite al di là di ogni colore politico, scendono in piazza per ricordare ai tanti (troppi) maschi alpha ancora in circolazione, che il corpo delle signore è - e deve essere – affare solo delle donne.

E invece, di nuovo, tocca assistere al teatrino misogino di un parterre principalmente al maschile intento a disquisire sulla bontà o meno dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Tema che, da due anni a questa parte, è tornato a essere fonte ispiratrice della politica e di tanti salotti francamente frequentati da troppi benpensanti.

La prova arriva da alcuni fatti che, non solo a livello nazionale, servono per capire come, e in che misura, tutte le donne dovrebbero rizzare le orecchie a restare (realmente) unite. Il 19 aprile scorso l’Unione Europea ha bacchettato l’Italia rispetto alla proposta fatta dal governo nazionale di inserire nel decreto Pnrr una mozione che, di fatto, inserirebbe associazioni antiabortiste nei consultori pubblici. A segnalare l’inammissibilità della proposta è stata la stessa portavoce Ue per gli Affari economici, Veerle Nuyts, che in conferenza stampa ha spiegato come «il decreto Pnrr contiene misure legate effettivamente al Piano di ripresa e resilienza italiano, e non ad altri aspetti che non hanno alcun legame con il Pnrr, come questa norma sull’aborto».

Qual è l’idea dal governo Meloni? Inserire un emendamento che «senza nuovi o maggiori oneri» per la finanza pubblica, permetta a «soggetti del terzo settore» con «una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» di entrare nella sanità pubblica. Una variante in corsa che ha fatto saltare sulla sedia tutte le femministe italiane che da mesi tentano di spiegare (in verità con scarsi risultati) come associazioni che sostengono il valore della vita fin dalle sue prime manifestazioni cellulari non possano essere quel soggetto terzo, laico e neutrale capace di sostenere e accogliere una donna che, rimasta incinta, non sa se portare avanti la gravidanza o interromperla. E che quindi, dato il momento di particolare fragilità, avrebbe bisogno di un aiuto sincero e soprattutto disinteressato.

Intanto l’iter legislativo va avanti, il decreto Pnrr è passato al Senato per l’approvazione definitiva (con l’emendamento aborto) e molto probabilmente sulla votazione sarà posta la fiducia del governo così da blindarlo da ogni possibile (e auspicabile) modifica. E poi? Non si sa, di certo questa mossa ha il sapore di propaganda elettorale in vista delle imminenti elezioni europee.

La variante Meloni è stata criticata duramente da parecchi politici all’opposizione; tra questi, anche il leader del movimento 5 stelle Giuseppe Conte, che ha chiesto pubblicamente di «non riaprire conflitti ideologici inutili. C’è una legge da tanto (la 194, ndr) - ha infatti precisato - consentiamo che sia applicata a tutte le donne che lo richiedono».

Ecco, appunto. La legge 194 del 1978. Che cosa dice davvero? Dice parecchio, ma lo fa - io credo - utilizzando un linguaggio vecchio e - qualcuno deve avere il coraggio di dirlo - intrisa di una morale abbondantemente superata dal sentire comune di gran parte della società civile. Per esempio, la legge 194 precisa come, durante il primo colloquio, il medico sia tenuto a indagare se «la scelta di interrompere una gravidanza viene fatta per ostacoli economici, sociali, lavorativi o altro». È bene ricordare, inoltre, che la norma italiana promulgata alla fine degli anni Settanta nasce per «la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza» e in prima istanza esige che «lo Stato garantisca il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio» così come l’Ivg «di cui alla presente legge (però ndr), non è mezzo per il controllo delle nascite».

Per quanto possa costare ammetterlo, quindi, la legge italiana che consente alle donne di abortire è ferma a 40 anni fa e cioè al momento storico in cui venne approvata, ma non è in grado di rappresentare quelle donne che aspirano alla libertà di poter essere sé stesse mente e corpo e, per questo, vorrebbero una legge laica e fondata sul diritto più che sulla tolleranza. Un piano ambizioso ma che, oggi più che mai, sembra irrealizzabile, almeno a breve termine. Resta da chiedersi, con più di una nota polemica, cos’hanno fatto le sinistre italiane negli ultimi 40 anni? Ahimè, niente da questo punto di vista. Perché, e non si tratta di una riflessione marginale, se alla fine degli anni Settanta bisognava scrivere una legge coraggiosa ma prudente e che riuscisse a unire pensieri estremamente diversi.

Oggi, però, almeno da questo punto di vista viviamo in un'altra era e le persone, molte donne soprattutto, chiedono uno Stato capace di garantire loro una tutela reale, priva di retorica, avulsa dal giudizio e finalmente: laica. Correva l’anno del governo Andreotti e pochi giorni prima che la 194 venisse promulgata, il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia venne assassinato Aldo Moro. Il Paese era così instabile che l’allora partito comunista italiano per quasi un anno continuò a votare la fiducia verso l'esecutivo. Ricordare la storia in questo caso non è solo un esercizio di stile. La legge 194 è stata sottoscritta all’unanimità da forze politiche molto diverse, ed è stata promulgata - gioco forza - dopo dibattito dirompente dal punto di vista sociale. E fu l’attivista e politica Emma Bonino ad avviare il confronto politico, e giuridico, che portò alla legge.

Dopo aver abortito illegalmente (ma in sicurezza) nel 1975 Bonino si autodenunciò per reato di procurato aborto, iniziando così la sua personale campagna per l’autodeterminazione della donna. «È partito tutto a seguito della mia esperienza personale quando mi sono ritrovata a parlare con le amiche per capire come fare ad abortire; di una cosa ero certa: non volevo diventare madre a 27 anni - ha rivelato in un’intervista che è parte integrante de Il diritto di scegliere, libro scritto di mio pugno nel 2022 proprio per capire se e quanto l’interruzione volontaria di gravidanza sia prassi lecita e sicura, nel mondo -. Fu un ‘esperienza pessima, di umiliazione e senso di colpa legata al fatto che stavo agendo nell’illegalità. Non per colpa del medico sia chiaro: non riuscivo a concepire l’idea di dover commettere un reato per poter decidere del mio corpo». È in quel periodo della sua vita che Emma Bonino incontra Giovanna Cattaneo Incisa (politica italiana ndr) e diventa attivista per i diritti. Un frammento di vita – quello di Bonino - che da privata diventa pubblica per sollecitare un cambiamento urgente nella Storia del nostro Paese.

Ecco, allora, io credo, che oggi la vera domanda da porsi sia questa: cosa è stato fatto dai partiti progressisti di sinistra negli ultimi 40 anni per favorire una vera parità di genere? Stando al diritto di decidere per il proprio corpo la risposta, purtroppo, è fin troppo semplice: nulla. Nulla per rinnovare una norma che non sancisce l’universalità del diritto all’aborto, come invece sta facendo la Francia con apposita legge in carta costituzionale, e come chiede il Parlamento europeo che propone di includerlo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Piuttosto, quello che fa è tollerare l’interruzione volontaria di gravidanza continuando a puntare il dito sul senso invece che, come credo dovrebbe fare ogni legge democratica, sul diritto alla salute. Certo, è un tema divisivo e ideologico. Ed è proprio per questo che dallo Stato ci si aspetterebbe una posizione di neutralità, priva di giudizio morale, e a tutela della salute delle donne.

Di fatto, anche per le sinistre italiane è stato più facile restare immobili dimenticandosi però, e oggi sono costrette a farci conto, che il loro elettorato non si accontenta di «mettere insieme il pranzo con la cena» perché, fin dai tempi della Resistenza, ha chiarito di volere un Paese democratico basato sui principi di libertà, uguaglianza e futuro. Tornando ai fatti. Che cosa significherebbe, oggi, aprire i consultori agli antiabortisti? Inutile negarlo, sarebbe un enorme passo indietro per i diritti delle donne perché vorrebbe dire permettere a gruppi organizzati, che considerano una Ivg volontaria alla stregua di un omicidio, di avvicinarsi alle donne e (di influenzarle?) durante uno dei momenti più delicati della loro vita.

Un’ulteriore precisazione. Al di là di quello che sostengono molti antiabortisti, le donne non si sottopongono a Ivg scambiando questa procedura per un metodo anticoncezionale. E anche dove si intraveda un residuale atteggiamento di questo genere, la domanda da porsi è: com’è possibile che un essere umano si trovi in condizione di tale fragilità e debolezza da sentire di disporre, come unico strumento di «prevenzione», un intervento chirurgico o una pillola abortiva piuttosto che la contraccezione? Ecco un altro tema paradossalmente ancora scottante e divisivo, la prevenzione che, invece, dovrebbe essere alla base delle attività promosse da un Paese democratico, moderno, e che vuole proteggere e sostenere le cittadine. Ovviamente, si intende una prevenzione che vada di pari passo con misure di contrasto reale e permanente alle fragilità e alla solitudine economica e sociale delle persone. E a proposito di farmaci, infine, una nota a margine che marginale non è, ma che spiega bene l’Italia di oggi.

Come mai non sentiamo mai parlare di una qualche ricerca volta a testare e commercializzare pillole anticoncezionali per uomini? Ecco un dato, che non è direttamente legato alla questione ma che, ne sono convita, può aiutare a capire che la medicina è ancora appannaggio pressoché esclusivamente maschile. La composizione dell’Aifa, agenzia italiana del farmaco, ente pubblico che regola e controlla il settore farmaceutico in Italia. Direttore amministrativo? Giovanni Pavesi; direttore tecnico-scientifico? Pierluigi Russo; presidente? Robert Giovanni Nisticò; composizione del consiglio di amministrazione? Francesco Fera, Emanuele Monti, Angelo Gratarola e Vito Montanaro. No, non no ci son refusi: trattasi solo di uomini: a volte la realtà supera la fantasia. «Donne, non arrendiamoci!» Tuonavano le nostre madri e nonne, quando pretendevano il diritto al voto.

Oggi il mondo è un’altra storia, certo. C’è il web, l’intelligenza artificiale e la tecnologia in genere, capace di abbattere barriere e, almeno per ora, recapitare una pillola abortiva ovunque possa atterrare un drone (merito di tante ginecologhe attiviste residenti un po’ in tutto il mondo). Che questo accada, però, non ci giustifica ad accettare passivamente l’escamotage. Al di là di ogni ipocrisia e retorica, infatti, bisogna partire da un elemento chiave. Nella storia si è sempre abortito, e sempre succederà. A fare la differenza è il come: in sicurezza o rischiando la vita? C’è stato un tempo nella storia in cui le donne libere venivano accusate di stregoneria e bruciate vive per ragioni puramente ideologiche e patriarcali, non dimentichiamolo.

Che fare? Dirà il lettore. Non ho una ricetta, ma credo che si debba partire da un punto. Facciamoci caso: privare le donne del proprio diritto all’autodeterminazione non significa colpire solo la sfera femminile, ma significa mortificarne la libertà. E nessuno, nemmeno noi donne a cui francamente spesso viene chiesto l’impossibile, può dare il meglio di sé quando non gli si garantisce la possibilità di realizzarsi ed esprimersi secondo la propria identità, inclinazione e sensibilità. I fatti contano più delle parole e ciascuno di noi ha la responsabilità di contribuire a salvaguardare il mondo in cui abitiamo per le generazioni future, e di farlo anche garantendo alle donne, a tutte le donne, di sentirsi padrone del proprio destino e non per questo sole. Qualsiasi sia la vostra, la nostra decisione. Nessuno dovrebbe prenderla al posto nostro, perché alla fine è una questione di libertà. Semplicemente.

E in ultima analisi, resta un fatto che a mio avviso troppo spesso gli antiabortisti ignorano. Le persone che si spendono a favore del diritto all’aborto non immaginano un mondo privo di bambini né pretendono che ogni donna incinta decida di interrompere la gravidanza. Semplicemente, vogliono tutelare chi si trova nella condizione di fare questa scelta. E vietare, limitare o giudicare moralmente l’interruzione volontaria di gravidanza resta - io credo - un timido paravento che non cancella il fenomeno ma rischia di spostarlo nel sottobosco dell’illegalità. E della solitudine.

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«Tremate, tremate: le streghe son tornate». Che bello sarebbe, se fosse di nuovo questo lo slogan utilizzato da migliaia di donne che insieme, e unite al di là di ogni colore politico, scendono in piazza per ricordare ai tanti (troppi) maschi alpha ancora in circolazione, che il corpo delle signore è - e deve essere – affare solo delle donne.

E invece, di nuovo, tocca assistere al teatrino misogino di un parterre principalmente al maschile intento a disquisire sulla bontà o meno dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Tema che, da due anni a questa parte, è tornato a essere fonte ispiratrice della politica e di tanti salotti francamente frequentati da troppi benpensanti.

La prova arriva da alcuni fatti che, non solo a livello nazionale, servono per capire come, e in che misura, tutte le donne dovrebbero rizzare le orecchie a restare (realmente) unite. Il 19 aprile scorso l’Unione Europea ha bacchettato l’Italia rispetto alla proposta fatta dal governo nazionale di inserire nel decreto Pnrr una mozione che, di fatto, inserirebbe associazioni antiabortiste nei consultori pubblici. A segnalare l’inammissibilità della proposta è stata la stessa portavoce Ue per gli Affari economici, Veerle Nuyts, che in conferenza stampa ha spiegato come «il decreto Pnrr contiene misure legate effettivamente al Piano di ripresa e resilienza italiano, e non ad altri aspetti che non hanno alcun legame con il Pnrr, come questa norma sull’aborto».

Qual è l’idea dal governo Meloni? Inserire un emendamento che «senza nuovi o maggiori oneri» per la finanza pubblica, permetta a «soggetti del terzo settore» con «una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» di entrare nella sanità pubblica. Una variante in corsa che ha fatto saltare sulla sedia tutte le femministe italiane che da mesi tentano di spiegare (in verità con scarsi risultati) come associazioni che sostengono il valore della vita fin dalle sue prime manifestazioni cellulari non possano essere quel soggetto terzo, laico e neutrale capace di sostenere e accogliere una donna che, rimasta incinta, non sa se portare avanti la gravidanza o interromperla. E che quindi, dato il momento di particolare fragilità, avrebbe bisogno di un aiuto sincero e soprattutto disinteressato.

Intanto l’iter legislativo va avanti, il decreto Pnrr è passato al Senato per l’approvazione definitiva (con l’emendamento aborto) e molto probabilmente sulla votazione sarà posta la fiducia del governo così da blindarlo da ogni possibile (e auspicabile) modifica. E poi? Non si sa, di certo questa mossa ha il sapore di propaganda elettorale in vista delle imminenti elezioni europee.

La variante Meloni è stata criticata duramente da parecchi politici all’opposizione; tra questi, anche il leader del movimento 5 stelle Giuseppe Conte, che ha chiesto pubblicamente di «non riaprire conflitti ideologici inutili. C’è una legge da tanto (la 194, ndr) - ha infatti precisato - consentiamo che sia applicata a tutte le donne che lo richiedono».

Ecco, appunto. La legge 194 del 1978. Che cosa dice davvero? Dice parecchio, ma lo fa - io credo - utilizzando un linguaggio vecchio e - qualcuno deve avere il coraggio di dirlo - intrisa di una morale abbondantemente superata dal sentire comune di gran parte della società civile. Per esempio, la legge 194 precisa come, durante il primo colloquio, il medico sia tenuto a indagare se «la scelta di interrompere una gravidanza viene fatta per ostacoli economici, sociali, lavorativi o altro». È bene ricordare, inoltre, che la norma italiana promulgata alla fine degli anni Settanta nasce per «la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza» e in prima istanza esige che «lo Stato garantisca il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio» così come l’Ivg «di cui alla presente legge (però ndr), non è mezzo per il controllo delle nascite».

Per quanto possa costare ammetterlo, quindi, la legge italiana che consente alle donne di abortire è ferma a 40 anni fa e cioè al momento storico in cui venne approvata, ma non è in grado di rappresentare quelle donne che aspirano alla libertà di poter essere sé stesse mente e corpo e, per questo, vorrebbero una legge laica e fondata sul diritto più che sulla tolleranza. Un piano ambizioso ma che, oggi più che mai, sembra irrealizzabile, almeno a breve termine. Resta da chiedersi, con più di una nota polemica, cos’hanno fatto le sinistre italiane negli ultimi 40 anni? Ahimè, niente da questo punto di vista. Perché, e non si tratta di una riflessione marginale, se alla fine degli anni Settanta bisognava scrivere una legge coraggiosa ma prudente e che riuscisse a unire pensieri estremamente diversi.

Oggi, però, almeno da questo punto di vista viviamo in un'altra era e le persone, molte donne soprattutto, chiedono uno Stato capace di garantire loro una tutela reale, priva di retorica, avulsa dal giudizio e finalmente: laica. Correva l’anno del governo Andreotti e pochi giorni prima che la 194 venisse promulgata, il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia venne assassinato Aldo Moro. Il Paese era così instabile che l’allora partito comunista italiano per quasi un anno continuò a votare la fiducia verso l'esecutivo. Ricordare la storia in questo caso non è solo un esercizio di stile. La legge 194 è stata sottoscritta all’unanimità da forze politiche molto diverse, ed è stata promulgata - gioco forza - dopo dibattito dirompente dal punto di vista sociale. E fu l’attivista e politica Emma Bonino ad avviare il confronto politico, e giuridico, che portò alla legge.

Dopo aver abortito illegalmente (ma in sicurezza) nel 1975 Bonino si autodenunciò per reato di procurato aborto, iniziando così la sua personale campagna per l’autodeterminazione della donna. «È partito tutto a seguito della mia esperienza personale quando mi sono ritrovata a parlare con le amiche per capire come fare ad abortire; di una cosa ero certa: non volevo diventare madre a 27 anni - ha rivelato in un’intervista che è parte integrante de Il diritto di scegliere, libro scritto di mio pugno nel 2022 proprio per capire se e quanto l’interruzione volontaria di gravidanza sia prassi lecita e sicura, nel mondo -. Fu un ‘esperienza pessima, di umiliazione e senso di colpa legata al fatto che stavo agendo nell’illegalità. Non per colpa del medico sia chiaro: non riuscivo a concepire l’idea di dover commettere un reato per poter decidere del mio corpo». È in quel periodo della sua vita che Emma Bonino incontra Giovanna Cattaneo Incisa (politica italiana ndr) e diventa attivista per i diritti. Un frammento di vita – quello di Bonino - che da privata diventa pubblica per sollecitare un cambiamento urgente nella Storia del nostro Paese.

Ecco, allora, io credo, che oggi la vera domanda da porsi sia questa: cosa è stato fatto dai partiti progressisti di sinistra negli ultimi 40 anni per favorire una vera parità di genere? Stando al diritto di decidere per il proprio corpo la risposta, purtroppo, è fin troppo semplice: nulla. Nulla per rinnovare una norma che non sancisce l’universalità del diritto all’aborto, come invece sta facendo la Francia con apposita legge in carta costituzionale, e come chiede il Parlamento europeo che propone di includerlo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Piuttosto, quello che fa è tollerare l’interruzione volontaria di gravidanza continuando a puntare il dito sul senso invece che, come credo dovrebbe fare ogni legge democratica, sul diritto alla salute. Certo, è un tema divisivo e ideologico. Ed è proprio per questo che dallo Stato ci si aspetterebbe una posizione di neutralità, priva di giudizio morale, e a tutela della salute delle donne.

Di fatto, anche per le sinistre italiane è stato più facile restare immobili dimenticandosi però, e oggi sono costrette a farci conto, che il loro elettorato non si accontenta di «mettere insieme il pranzo con la cena» perché, fin dai tempi della Resistenza, ha chiarito di volere un Paese democratico basato sui principi di libertà, uguaglianza e futuro. Tornando ai fatti. Che cosa significherebbe, oggi, aprire i consultori agli antiabortisti? Inutile negarlo, sarebbe un enorme passo indietro per i diritti delle donne perché vorrebbe dire permettere a gruppi organizzati, che considerano una Ivg volontaria alla stregua di un omicidio, di avvicinarsi alle donne e (di influenzarle?) durante uno dei momenti più delicati della loro vita.

Un’ulteriore precisazione. Al di là di quello che sostengono molti antiabortisti, le donne non si sottopongono a Ivg scambiando questa procedura per un metodo anticoncezionale. E anche dove si intraveda un residuale atteggiamento di questo genere, la domanda da porsi è: com’è possibile che un essere umano si trovi in condizione di tale fragilità e debolezza da sentire di disporre, come unico strumento di «prevenzione», un intervento chirurgico o una pillola abortiva piuttosto che la contraccezione? Ecco un altro tema paradossalmente ancora scottante e divisivo, la prevenzione che, invece, dovrebbe essere alla base delle attività promosse da un Paese democratico, moderno, e che vuole proteggere e sostenere le cittadine. Ovviamente, si intende una prevenzione che vada di pari passo con misure di contrasto reale e permanente alle fragilità e alla solitudine economica e sociale delle persone. E a proposito di farmaci, infine, una nota a margine che marginale non è, ma che spiega bene l’Italia di oggi.

Come mai non sentiamo mai parlare di una qualche ricerca volta a testare e commercializzare pillole anticoncezionali per uomini? Ecco un dato, che non è direttamente legato alla questione ma che, ne sono convita, può aiutare a capire che la medicina è ancora appannaggio pressoché esclusivamente maschile. La composizione dell’Aifa, agenzia italiana del farmaco, ente pubblico che regola e controlla il settore farmaceutico in Italia. Direttore amministrativo? Giovanni Pavesi; direttore tecnico-scientifico? Pierluigi Russo; presidente? Robert Giovanni Nisticò; composizione del consiglio di amministrazione? Francesco Fera, Emanuele Monti, Angelo Gratarola e Vito Montanaro. No, non no ci son refusi: trattasi solo di uomini: a volte la realtà supera la fantasia. «Donne, non arrendiamoci!» Tuonavano le nostre madri e nonne, quando pretendevano il diritto al voto.

Oggi il mondo è un’altra storia, certo. C’è il web, l’intelligenza artificiale e la tecnologia in genere, capace di abbattere barriere e, almeno per ora, recapitare una pillola abortiva ovunque possa atterrare un drone (merito di tante ginecologhe attiviste residenti un po’ in tutto il mondo). Che questo accada, però, non ci giustifica ad accettare passivamente l’escamotage. Al di là di ogni ipocrisia e retorica, infatti, bisogna partire da un elemento chiave. Nella storia si è sempre abortito, e sempre succederà. A fare la differenza è il come: in sicurezza o rischiando la vita? C’è stato un tempo nella storia in cui le donne libere venivano accusate di stregoneria e bruciate vive per ragioni puramente ideologiche e patriarcali, non dimentichiamolo.

Che fare? Dirà il lettore. Non ho una ricetta, ma credo che si debba partire da un punto. Facciamoci caso: privare le donne del proprio diritto all’autodeterminazione non significa colpire solo la sfera femminile, ma significa mortificarne la libertà. E nessuno, nemmeno noi donne a cui francamente spesso viene chiesto l’impossibile, può dare il meglio di sé quando non gli si garantisce la possibilità di realizzarsi ed esprimersi secondo la propria identità, inclinazione e sensibilità. I fatti contano più delle parole e ciascuno di noi ha la responsabilità di contribuire a salvaguardare il mondo in cui abitiamo per le generazioni future, e di farlo anche garantendo alle donne, a tutte le donne, di sentirsi padrone del proprio destino e non per questo sole. Qualsiasi sia la vostra, la nostra decisione. Nessuno dovrebbe prenderla al posto nostro, perché alla fine è una questione di libertà. Semplicemente.

E in ultima analisi, resta un fatto che a mio avviso troppo spesso gli antiabortisti ignorano. Le persone che si spendono a favore del diritto all’aborto non immaginano un mondo privo di bambini né pretendono che ogni donna incinta decida di interrompere la gravidanza. Semplicemente, vogliono tutelare chi si trova nella condizione di fare questa scelta. E vietare, limitare o giudicare moralmente l’interruzione volontaria di gravidanza resta - io credo - un timido paravento che non cancella il fenomeno ma rischia di spostarlo nel sottobosco dell’illegalità. E della solitudine.

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Gli scempi della destra e le colpe della sinistra sull'aborto

16 0
22.04.2024

«Tremate, tremate: le streghe son tornate». Che bello sarebbe, se fosse di nuovo questo lo slogan utilizzato da migliaia di donne che insieme, e unite al di là di ogni colore politico, scendono in piazza per ricordare ai tanti (troppi) maschi alpha ancora in circolazione, che il corpo delle signore è - e deve essere – affare solo delle donne.

E invece, di nuovo, tocca assistere al teatrino misogino di un parterre principalmente al maschile intento a disquisire sulla bontà o meno dell’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg). Tema che, da due anni a questa parte, è tornato a essere fonte ispiratrice della politica e di tanti salotti francamente frequentati da troppi benpensanti.

La prova arriva da alcuni fatti che, non solo a livello nazionale, servono per capire come, e in che misura, tutte le donne dovrebbero rizzare le orecchie a restare (realmente) unite. Il 19 aprile scorso l’Unione Europea ha bacchettato l’Italia rispetto alla proposta fatta dal governo nazionale di inserire nel decreto Pnrr una mozione che, di fatto, inserirebbe associazioni antiabortiste nei consultori pubblici. A segnalare l’inammissibilità della proposta è stata la stessa portavoce Ue per gli Affari economici, Veerle Nuyts, che in conferenza stampa ha spiegato come «il decreto Pnrr contiene misure legate effettivamente al Piano di ripresa e resilienza italiano, e non ad altri aspetti che non hanno alcun legame con il Pnrr, come questa norma sull’aborto».

Qual è l’idea dal governo Meloni? Inserire un emendamento che «senza nuovi o maggiori oneri» per la finanza pubblica, permetta a «soggetti del terzo settore» con «una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» di entrare nella sanità pubblica. Una variante in corsa che ha fatto saltare sulla sedia tutte le femministe italiane che da mesi tentano di spiegare (in verità con scarsi risultati) come associazioni che sostengono il valore della vita fin dalle sue prime manifestazioni cellulari non possano essere quel soggetto terzo, laico e neutrale capace di sostenere e accogliere una donna che, rimasta incinta, non sa se portare avanti la gravidanza o interromperla. E che quindi, dato il momento di particolare fragilità, avrebbe bisogno di un aiuto sincero e soprattutto disinteressato.

Intanto l’iter legislativo va avanti, il decreto Pnrr è passato al Senato per l’approvazione definitiva (con l’emendamento aborto) e molto probabilmente sulla votazione sarà posta la fiducia del governo così da blindarlo da ogni possibile (e auspicabile) modifica. E poi? Non si sa, di certo questa mossa ha il sapore di propaganda elettorale in vista delle imminenti elezioni europee.

La variante Meloni è stata criticata duramente da parecchi politici all’opposizione; tra questi, anche il leader del movimento 5 stelle Giuseppe Conte, che ha chiesto pubblicamente di «non riaprire conflitti ideologici inutili. C’è una legge da tanto (la 194, ndr) - ha infatti precisato - consentiamo che sia applicata a tutte le donne che lo richiedono».

Ecco, appunto. La legge 194 del 1978. Che cosa dice davvero? Dice parecchio, ma lo fa - io credo - utilizzando un linguaggio vecchio e - qualcuno deve avere il coraggio di dirlo - intrisa di una morale abbondantemente superata dal sentire comune di gran parte della società civile. Per esempio, la legge 194 precisa come, durante il primo colloquio, il medico sia tenuto a indagare se «la scelta di interrompere una gravidanza viene fatta per ostacoli economici, sociali, lavorativi o altro». È bene ricordare, inoltre, che la norma italiana promulgata alla fine degli anni Settanta nasce per «la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza» e in prima istanza esige che «lo Stato garantisca il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio» così come l’Ivg «di cui alla presente legge (però ndr), non è mezzo per il controllo delle nascite».

Per quanto possa costare ammetterlo, quindi, la legge italiana che consente alle donne di abortire è ferma a 40 anni fa e cioè al momento storico in cui venne approvata, ma non è in grado di rappresentare quelle donne che aspirano alla libertà di poter essere sé stesse mente e corpo e, per questo, vorrebbero una legge laica e fondata sul diritto più che sulla tolleranza. Un piano ambizioso ma che, oggi più che mai, sembra irrealizzabile, almeno a breve termine. Resta da chiedersi, con più di una nota polemica, cos’hanno fatto le sinistre italiane negli ultimi 40 anni? Ahimè, niente da questo punto di vista. Perché, e non si tratta di una riflessione marginale, se alla fine degli anni Settanta bisognava scrivere una legge coraggiosa ma prudente e che riuscisse a unire pensieri estremamente diversi.

Oggi, però, almeno da questo punto di vista viviamo in un'altra era e le persone, molte donne soprattutto, chiedono uno Stato capace di garantire loro una tutela reale, priva di retorica, avulsa dal giudizio e finalmente: laica. Correva l’anno del governo Andreotti e pochi giorni prima che la 194 venisse promulgata, il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia venne assassinato Aldo Moro. Il Paese era così instabile che l’allora partito comunista italiano per quasi un anno continuò a votare la fiducia verso l'esecutivo. Ricordare la storia in questo caso non è solo un esercizio di stile. La legge 194 è stata sottoscritta all’unanimità da forze politiche molto diverse, ed è stata promulgata - gioco forza - dopo dibattito dirompente dal punto di vista sociale. E fu l’attivista e politica Emma Bonino ad avviare il confronto politico, e giuridico, che portò alla legge.

Dopo aver abortito illegalmente (ma in sicurezza) nel 1975 Bonino si autodenunciò per reato di procurato aborto, iniziando così la sua personale campagna per l’autodeterminazione della donna. «È partito tutto a seguito della mia esperienza personale quando mi sono ritrovata a parlare con le amiche per capire come fare ad abortire; di una cosa ero certa: non volevo diventare madre a 27 anni - ha rivelato in un’intervista che è parte integrante de Il diritto di scegliere, libro scritto di mio pugno nel 2022 proprio per capire se e quanto l’interruzione volontaria di gravidanza sia prassi lecita e sicura, nel mondo -. Fu un ‘esperienza pessima, di umiliazione e senso di colpa legata al fatto che stavo agendo nell’illegalità. Non per colpa del........

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