Al confine tra Iran e Afghanistan, in un deserto bianco e polveroso come fosse di calce e attraversato da una lunga barriera di cemento dello stesso colore, un gruppo di afghani di etnia hazara, perseguitati da Pashtun e talebani, attende di poter andare oltre, verso la Turchia. Sono irregolari che rischiano di essere riportati nel Paese di origine – per loro ancora più rischioso dopo il ritorno dei talebani al potere - ma la piccola comunità locale di etnia baluci li accoglie e li sostiene, grazie a un capo villaggio autorevole e di poche parole, ma che rispetta il valore dell’ospitalità. Sono profughi e hanno bisogno di aiuto, appartengono a una minoranza etnico-religiosa perseguitata, ma nella loro famiglia c’è la giovane moglie di un uomo molto anziano che sta per morire: lei ha solo 16 anni, è stata comprata per ripagare un debito, e le logiche dell’onore in quel nucleo familiare sono inflessibili. E lei ne è la perfetta vittima sacrificale, quando un giovane iraniano del posto si innamora di lei, spingendosi fino al punto da sfidare non solo la famiglia afghana ma anche il parere contrario della propria comunità, e tentare con la ragazza la fuga verso la Turchia.

Ce ne sarebbe già abbastanza, nel film Endless Borders di Abbas Amini – portato a Roma dal MedFilm Festival e premiato da Amnesty International - per spiazzare lo spettatore sui criteri per distinguere tra bene e male. Ma chiunque abbia avuto qualche frequentazione con il cinema iraniano d’autore sa bene quanto esso si nutra del gusto di indagare i temi etici in tutte le loro infinite e contraddittorie sfaccettature. E così, in questo incontro di confine tra afghani in fuga e baluci iraniani relegati alla marginalità economica e sociale, si inserisce la vicenda parallela di Ahmad, insegnante di Teheran condannato all’esilio in quella terra dimenticata per non chiari crimini politici: è uno dei tanti intellettuali che la Repubblica Islamica perseguita se superano le sempre incerte linee rosse del libero pensiero, ma a lui è andata meglio che alla moglie, che invece è stata chiusa in carcere per simili accuse. Anche qui comincia a dipanarsi un groviglio di sospetti sulle responsabilità effettive del marito. Ma la trama ha una svolta improvvisa quando anche Ahmad tradisce un codice etico non scritto, e decide di fuggire verso la Turchia: alla fine lo ritroveremo proprio là, sulla terra melmosa di un altro confine che è insieme geografico ed esistenziale.

Dal cinema alla realtà, milioni di afghani a rischio di rimpatrio forzato

Amnesty ha insignito il film del premio Diritti Umani “per lo scarno, mai inutilmente violento eppure potentissimo affresco di un territorio attraversato da abusi e brutalità che si affiancano e, spesso, si sovrappongono”.

E infatti la realtà, come è noto, supera spesso la fantasia quando infligge nuove violenze e sofferenze chi è già reietto e perseguitato. Come appunto sta accadendo proprio in queste settimane con milioni di profughi afghani che in questi decenni, e in particolare negli ultimi due anni, hanno trovato rifugio in Pakistan e in Iran: due Paesi dove certo non sono stati sempre bene accolti, e solo relativamente pochi hanno ottenuto una regolarizzazione, ma dove hanno comunque trovato un tetto e occasioni lavorative, benché precarie, sottopagate se non in condizioni di sfruttamento. Ma che ora subiscono, se privi di regolari documenti di soggiorno, la minaccia di pianificate deportazioni da parte sia del Pakistan (che ha fissato una prima scadenza al 31 ottobre, da poco estesa al 31 dicembre, per circa 1,5 milioni di profughi irregolari), che dell’Iran.

Del caso pakistano si è già parlato in questo blog. Stavolta è il film Endless Borders per dare l’occasione per soffermarci invece su quello dell’Iran: da dove – secondo gli ultimi dati ufficiali – almeno 450 mila irregolari, per la maggior parte afghani, sono stati rimpatrati.

Sui numeri degli afghani presenti in Iran non vi sono in realtà certezzo: nello scorso settembre erano circa 5 milioni quelli in condizione irregolare secondo il ministro dell’Interno Ahmad Vahidi, che ne annunciava l’imminente deportazione (in realtà i rimpatri forzati erano in corso da tempo). Un milione aveva raggiunto l’Iran in soli sette mesi dopo il ritorno dei talebani a Kabul, aveva dichiarato all’epoca il l ministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian, lamentando la scarsa attenzione degli organismi internazionali ai rifugiati afghani accolti dai paesi confinanti Secondo il sito dell’Unhcr, che ha un ufficio a Teheran ma dipende dal governo per le sue statistiche non avendo la possibilità di compiere un monitoraggio sui confini, in Iran vivono almeno 4,5 afghani con vari status giuridici; fra questi, 750 mila rifugiati effettivi e 2,6 milioni con uno status similare, che collocano l’Iran al secondo posto dopo la Turchia nella classifica mondiale per numero di rifugiati. Ma altre stime parlano di una presenza di sei-sette milioni di afghani nel Paese, mentre alcune forze e siti di opposizione accusano il governo di non contrastare o addirittura incoraggiare i trafficanti per rimediare al calo demografico da una parte, e garantirsi una base di consenso politico interno dall’altra, in particolare con gli afghani di fede sciita (generalmente gli hazara).

Quanto alla decisione del governo iraniano di applicare una politica più sistematica di rimpatri forzati, le ragioni vanno certo ricercate nella situazione economica del Paese, nonostante gli afghani costituiscano un’importante riserva di forza lavoro, impiegata sia nell’edilizia che in occupazioni solitamente disertate dagli iraniani. La misura viene anche attribuita alle tensioni tra il governo iraniano e quello de-facto di Kabul, in particolare a proposito di un accordo del 1973 sulla ripartizione delle risorse idriche del fiume Helmand, che la parte afghana non rispetterebbe addebitandone le ragioni al cambiamento climatico. Ma è interessante, a questo proposito, il punto di vista del media afghano Hasht e Subh, fondato nel 2007 e ora basato all’estero, che segnala anche un nuovo fenomeno: atti di ostilità verso gli afghani da parte della popolazione iraniana, che non avrebbero avuto precedenti in passato ma che, si ipotizza, potrebbero ora essere incoraggiati dallo stesso governo proprio a sostegno della nuova politica di espulsioni. E, osserva ancora lo stesso sito, una delle ragioni primarie potrebbe essere “la vulnerabilità economica dell’Iran derivante dalle sanzioni internazionali”. Se non ci fossero queste sanzioni, ipotizza infatti, “gli afghani forse non subirebbero la difficile situazione in cui si trovano ora”.

Al terzo inverno la crisi umanitaria, sotto le tende i terremotati di Herat

Ma se qui siamo nel campo delle ipotesi, sono destinati a diventare presto realtà le conseguenze delle espulsioni dall’Iran come dal Pakistan: all’Afghanistan, in condizioni di grave crisi economica e umanitaria, non è certo in grando di accogliere il ritorno di milioni di connazionali, che dall’estero mandavano rimesse economiche cruciali per la sussistenza delle famiglie di origine. Senza contare i rischi che corrono i giornalisti, gli attivisti, i funzionari del precedente governo e i collaboratori delle forze straniere che erano fuggiti dal Paese subito dopo la ripresa di Kabul da parte dei talebani. E sia Teheran che Islamabad hanno deciso mettere in atto in modo sistematico le espulsioni nella stagione peggiore: il terzo inverno dal ritorno al potere dei talebani, che ha portato a una netta diminuzione degli aiuti internazionali al Paese: tanto che il World Food Program ha di recente calcolato in 400 milioni di dollari il fabbisogno per sostenere le comunità più vulnerabili, con oltre il 90% della popolazione sotto il livello di povertà e quasi 17 milioni che si confrontano con una grave insicurezza alimentare.

A tutto questo si sommano le pesanti condizioni della provincia di Herat, colpita in ottobre da violente scosse sismiche che hanno ucciso almeno 2400 persone e distrutto decine di migliaia di abitazioni. Per i sopravvissuti rimasti senza casa al momento non vi sono alternative che vivere sotto le tende, con scarsa disponibilità di acqua pulita e insufficiente accesso all’assistenza sanitaria. L’ufficio Onu per gli Affari umanitari aveva calcolato che per affrontare l’emergenza servono 93 milioni di dollari, ma a inizio novembre erano stati assicurati solo il 26% di questi fondi. Al solito, quando di tratta di Afghanistan la comunità internazionale preferisce sempre guardare altrove.

Segui i temi Commenta con i lettori I commenti dei lettori

Suggerisci una correzione

Al confine tra Iran e Afghanistan, in un deserto bianco e polveroso come fosse di calce e attraversato da una lunga barriera di cemento dello stesso colore, un gruppo di afghani di etnia hazara, perseguitati da Pashtun e talebani, attende di poter andare oltre, verso la Turchia. Sono irregolari che rischiano di essere riportati nel Paese di origine – per loro ancora più rischioso dopo il ritorno dei talebani al potere - ma la piccola comunità locale di etnia baluci li accoglie e li sostiene, grazie a un capo villaggio autorevole e di poche parole, ma che rispetta il valore dell’ospitalità. Sono profughi e hanno bisogno di aiuto, appartengono a una minoranza etnico-religiosa perseguitata, ma nella loro famiglia c’è la giovane moglie di un uomo molto anziano che sta per morire: lei ha solo 16 anni, è stata comprata per ripagare un debito, e le logiche dell’onore in quel nucleo familiare sono inflessibili. E lei ne è la perfetta vittima sacrificale, quando un giovane iraniano del posto si innamora di lei, spingendosi fino al punto da sfidare non solo la famiglia afghana ma anche il parere contrario della propria comunità, e tentare con la ragazza la fuga verso la Turchia.

Ce ne sarebbe già abbastanza, nel film Endless Borders di Abbas Amini – portato a Roma dal MedFilm Festival e premiato da Amnesty International - per spiazzare lo spettatore sui criteri per distinguere tra bene e male. Ma chiunque abbia avuto qualche frequentazione con il cinema iraniano d’autore sa bene quanto esso si nutra del gusto di indagare i temi etici in tutte le loro infinite e contraddittorie sfaccettature. E così, in questo incontro di confine tra afghani in fuga e baluci iraniani relegati alla marginalità economica e sociale, si inserisce la vicenda parallela di Ahmad, insegnante di Teheran condannato all’esilio in quella terra dimenticata per non chiari crimini politici: è uno dei tanti intellettuali che la Repubblica Islamica perseguita se superano le sempre incerte linee rosse del libero pensiero, ma a lui è andata meglio che alla moglie, che invece è stata chiusa in carcere per simili accuse. Anche qui comincia a dipanarsi un groviglio di sospetti sulle responsabilità effettive del marito. Ma la trama ha una svolta improvvisa quando anche Ahmad tradisce un codice etico non scritto, e decide di fuggire verso la Turchia: alla fine lo ritroveremo proprio là, sulla terra melmosa di un altro confine che è insieme geografico ed esistenziale.

Dal cinema alla realtà, milioni di afghani a rischio di rimpatrio forzato

Amnesty ha insignito il film del premio Diritti Umani “per lo scarno, mai inutilmente violento eppure potentissimo affresco di un territorio attraversato da abusi e brutalità che si affiancano e, spesso, si sovrappongono”.

E infatti la realtà, come è noto, supera spesso la fantasia quando infligge nuove violenze e sofferenze chi è già reietto e perseguitato. Come appunto sta accadendo proprio in queste settimane con milioni di profughi afghani che in questi decenni, e in particolare negli ultimi due anni, hanno trovato rifugio in Pakistan e in Iran: due Paesi dove certo non sono stati sempre bene accolti, e solo relativamente pochi hanno ottenuto una regolarizzazione, ma dove hanno comunque trovato un tetto e occasioni lavorative, benché precarie, sottopagate se non in condizioni di sfruttamento. Ma che ora subiscono, se privi di regolari documenti di soggiorno, la minaccia di pianificate deportazioni da parte sia del Pakistan (che ha fissato una prima scadenza al 31 ottobre, da poco estesa al 31 dicembre, per circa 1,5 milioni di profughi irregolari), che dell’Iran.

Del caso pakistano si è già parlato in questo blog. Stavolta è il film Endless Borders per dare l’occasione per soffermarci invece su quello dell’Iran: da dove – secondo gli ultimi dati ufficiali – almeno 450 mila irregolari, per la maggior parte afghani, sono stati rimpatrati.

Sui numeri degli afghani presenti in Iran non vi sono in realtà certezzo: nello scorso settembre erano circa 5 milioni quelli in condizione irregolare secondo il ministro dell’Interno Ahmad Vahidi, che ne annunciava l’imminente deportazione (in realtà i rimpatri forzati erano in corso da tempo). Un milione aveva raggiunto l’Iran in soli sette mesi dopo il ritorno dei talebani a Kabul, aveva dichiarato all’epoca il l ministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian, lamentando la scarsa attenzione degli organismi internazionali ai rifugiati afghani accolti dai paesi confinanti Secondo il sito dell’Unhcr, che ha un ufficio a Teheran ma dipende dal governo per le sue statistiche non avendo la possibilità di compiere un monitoraggio sui confini, in Iran vivono almeno 4,5 afghani con vari status giuridici; fra questi, 750 mila rifugiati effettivi e 2,6 milioni con uno status similare, che collocano l’Iran al secondo posto dopo la Turchia nella classifica mondiale per numero di rifugiati. Ma altre stime parlano di una presenza di sei-sette milioni di afghani nel Paese, mentre alcune forze e siti di opposizione accusano il governo di non contrastare o addirittura incoraggiare i trafficanti per rimediare al calo demografico da una parte, e garantirsi una base di consenso politico interno dall’altra, in particolare con gli afghani di fede sciita (generalmente gli hazara).

Quanto alla decisione del governo iraniano di applicare una politica più sistematica di rimpatri forzati, le ragioni vanno certo ricercate nella situazione economica del Paese, nonostante gli afghani costituiscano un’importante riserva di forza lavoro, impiegata sia nell’edilizia che in occupazioni solitamente disertate dagli iraniani. La misura viene anche attribuita alle tensioni tra il governo iraniano e quello de-facto di Kabul, in particolare a proposito di un accordo del 1973 sulla ripartizione delle risorse idriche del fiume Helmand, che la parte afghana non rispetterebbe addebitandone le ragioni al cambiamento climatico. Ma è interessante, a questo proposito, il punto di vista del media afghano Hasht e Subh, fondato nel 2007 e ora basato all’estero, che segnala anche un nuovo fenomeno: atti di ostilità verso gli afghani da parte della popolazione iraniana, che non avrebbero avuto precedenti in passato ma che, si ipotizza, potrebbero ora essere incoraggiati dallo stesso governo proprio a sostegno della nuova politica di espulsioni. E, osserva ancora lo stesso sito, una delle ragioni primarie potrebbe essere “la vulnerabilità economica dell’Iran derivante dalle sanzioni internazionali”. Se non ci fossero queste sanzioni, ipotizza infatti, “gli afghani forse non subirebbero la difficile situazione in cui si trovano ora”.

Al terzo inverno la crisi umanitaria, sotto le tende i terremotati di Herat

Ma se qui siamo nel campo delle ipotesi, sono destinati a diventare presto realtà le conseguenze delle espulsioni dall’Iran come dal Pakistan: all’Afghanistan, in condizioni di grave crisi economica e umanitaria, non è certo in grando di accogliere il ritorno di milioni di connazionali, che dall’estero mandavano rimesse economiche cruciali per la sussistenza delle famiglie di origine. Senza contare i rischi che corrono i giornalisti, gli attivisti, i funzionari del precedente governo e i collaboratori delle forze straniere che erano fuggiti dal Paese subito dopo la ripresa di Kabul da parte dei talebani. E sia Teheran che Islamabad hanno deciso mettere in atto in modo sistematico le espulsioni nella stagione peggiore: il terzo inverno dal ritorno al potere dei talebani, che ha portato a una netta diminuzione degli aiuti internazionali al Paese: tanto che il World Food Program ha di recente calcolato in 400 milioni di dollari il fabbisogno per sostenere le comunità più vulnerabili, con oltre il 90% della popolazione sotto il livello di povertà e quasi 17 milioni che si confrontano con una grave insicurezza alimentare.

A tutto questo si sommano le pesanti condizioni della provincia di Herat, colpita in ottobre da violente scosse sismiche che hanno ucciso almeno 2400 persone e distrutto decine di migliaia di abitazioni. Per i sopravvissuti rimasti senza casa al momento non vi sono alternative che vivere sotto le tende, con scarsa disponibilità di acqua pulita e insufficiente accesso all’assistenza sanitaria. L’ufficio Onu per gli Affari umanitari aveva calcolato che per affrontare l’emergenza servono 93 milioni di dollari, ma a inizio novembre erano stati assicurati solo il 26% di questi fondi. Al solito, quando di tratta di Afghanistan la comunità internazionale preferisce sempre guardare altrove.

QOSHE - "Endless borders", in Iran l'altra infinita odissea afghana - Luciana Borsatti
menu_open
Columnists Actual . Favourites . Archive
We use cookies to provide some features and experiences in QOSHE

More information  .  Close
Aa Aa Aa
- A +

"Endless borders", in Iran l'altra infinita odissea afghana

2 0
21.11.2023

Al confine tra Iran e Afghanistan, in un deserto bianco e polveroso come fosse di calce e attraversato da una lunga barriera di cemento dello stesso colore, un gruppo di afghani di etnia hazara, perseguitati da Pashtun e talebani, attende di poter andare oltre, verso la Turchia. Sono irregolari che rischiano di essere riportati nel Paese di origine – per loro ancora più rischioso dopo il ritorno dei talebani al potere - ma la piccola comunità locale di etnia baluci li accoglie e li sostiene, grazie a un capo villaggio autorevole e di poche parole, ma che rispetta il valore dell’ospitalità. Sono profughi e hanno bisogno di aiuto, appartengono a una minoranza etnico-religiosa perseguitata, ma nella loro famiglia c’è la giovane moglie di un uomo molto anziano che sta per morire: lei ha solo 16 anni, è stata comprata per ripagare un debito, e le logiche dell’onore in quel nucleo familiare sono inflessibili. E lei ne è la perfetta vittima sacrificale, quando un giovane iraniano del posto si innamora di lei, spingendosi fino al punto da sfidare non solo la famiglia afghana ma anche il parere contrario della propria comunità, e tentare con la ragazza la fuga verso la Turchia.

Ce ne sarebbe già abbastanza, nel film Endless Borders di Abbas Amini – portato a Roma dal MedFilm Festival e premiato da Amnesty International - per spiazzare lo spettatore sui criteri per distinguere tra bene e male. Ma chiunque abbia avuto qualche frequentazione con il cinema iraniano d’autore sa bene quanto esso si nutra del gusto di indagare i temi etici in tutte le loro infinite e contraddittorie sfaccettature. E così, in questo incontro di confine tra afghani in fuga e baluci iraniani relegati alla marginalità economica e sociale, si inserisce la vicenda parallela di Ahmad, insegnante di Teheran condannato all’esilio in quella terra dimenticata per non chiari crimini politici: è uno dei tanti intellettuali che la Repubblica Islamica perseguita se superano le sempre incerte linee rosse del libero pensiero, ma a lui è andata meglio che alla moglie, che invece è stata chiusa in carcere per simili accuse. Anche qui comincia a dipanarsi un groviglio di sospetti sulle responsabilità effettive del marito. Ma la trama ha una svolta improvvisa quando anche Ahmad tradisce un codice etico non scritto, e decide di fuggire verso la Turchia: alla fine lo ritroveremo proprio là, sulla terra melmosa di un altro confine che è insieme geografico ed esistenziale.

Dal cinema alla realtà, milioni di afghani a rischio di rimpatrio forzato

Amnesty ha insignito il film del premio Diritti Umani “per lo scarno, mai inutilmente violento eppure potentissimo affresco di un territorio attraversato da abusi e brutalità che si affiancano e, spesso, si sovrappongono”.

E infatti la realtà, come è noto, supera spesso la fantasia quando infligge nuove violenze e sofferenze chi è già reietto e perseguitato. Come appunto sta accadendo proprio in queste settimane con milioni di profughi afghani che in questi decenni, e in particolare negli ultimi due anni, hanno trovato rifugio in Pakistan e in Iran: due Paesi dove certo non sono stati sempre bene accolti, e solo relativamente pochi hanno ottenuto una regolarizzazione, ma dove hanno comunque trovato un tetto e occasioni lavorative, benché precarie, sottopagate se non in condizioni di sfruttamento. Ma che ora subiscono, se privi di regolari documenti di soggiorno, la minaccia di pianificate deportazioni da parte sia del Pakistan (che ha fissato una prima scadenza al 31 ottobre, da poco estesa al 31 dicembre, per circa 1,5 milioni di profughi irregolari), che dell’Iran.

Del caso pakistano si è già parlato in questo blog. Stavolta è il film Endless Borders per dare l’occasione per soffermarci invece su quello dell’Iran: da dove – secondo gli ultimi dati ufficiali – almeno 450 mila irregolari, per la maggior parte afghani, sono stati rimpatrati.

Sui numeri degli afghani presenti in Iran non vi sono in realtà certezzo: nello scorso settembre erano circa 5 milioni quelli in condizione irregolare secondo il ministro dell’Interno Ahmad Vahidi, che ne annunciava l’imminente deportazione (in realtà i rimpatri forzati erano in corso da tempo). Un milione aveva raggiunto l’Iran in soli sette mesi dopo il ritorno dei talebani a........

© HuffPost


Get it on Google Play