Dove, come e soprattutto quando colpirà l’Iran nello sferrare la propria ritorsione contro Israele per l’attacco al consolato di Damasco? Questa è la domanda che tutte le cancellerie si pongono in queste ore angosciose d’attesa, che sembrano precedere l’inizio di una nuova crisi che potrebbe potenzialmente portare ad una guerra di ampie proporzioni in Medio Oriente. Non più una questione di “se”, ma ormai solo di “quando” e “come”. A dispetto della palpabile tensione, tuttavia, molti sono ancora gli scenari, e soprattutto i tempi possibili per l’avvio di questa nuova dinamica di crisi regionale.

Il dilemma strategico nel dibattito politico iraniano

La premessa al possibile – e alquanto probabile – attacco iraniano contro Israele deve necessariamente transitare attraverso una considerazione preliminare di politica interna. La scelta della ritorsione è infatti parte di un calcolo strategico molto complesso, divisivo e altamente polarizzante nell’ambito del sistema politico iraniano. La Guida Suprema, Ali Khamenei, rappresenta oggi il residuale e minoritario baluardo della prima generazione del potere, da sempre caratterizzata da un pronunciato pragmatismo e dalla volontà di non varcare quella “linea rossa” che potrebbe condurre un conflitto a lambire i confini dell’Iran. Khamenei ha sino ad oggi esercitato quella cosiddetta “pazienza strategica” che è riuscita a contenere le spinte più irruente e aggressive degli esponenti militari e di seconda generazione, anche di fronte all’uccisione del generale Soleimani a Bagdad, dei continui bombardamenti delle proprie unità militari in Siria e il sistematico targeting dei propri scienziati coinvolti nello sviluppo del controverso programma nucleare. Al tempo stesso ha favorito la continuità di una “escalation controllata” con Israele, anche dopo i tragici fatti dello scorso 7 ottobre, mantenendo alta la pressione su Israele attraverso i propri alleati regionali, dei quali ha tuttavia più subito l’effetto delle loro intemperanze che non gestito l’azione.

La seconda generazione del potere ha idee e posizioni ideologiche alquanto diverse dalla prima, soprattutto in seno all’apparato di potere dell’IRGC, i Pasdaran, che controllano non solo un vasto sistema militare, ma anche la strategica componente dell’industria militare, oltre ad essere ampiamente rappresentati nel tessuto della politica nazionale.

Questa generazione ha ormai definitivamente assunto il controllo del paese, pur in presenza di una residuale e ormai quasi simbolica rappresentatività della prima generazione al vertice delle istituzioni. Alle ultime elezioni parlamentari dello scorso marzo, inoltre, la componente più oltranzista del sistema conservatore, i cosiddetti Paydari, ha ampiamente surclassato la frangia tradizionalista, i “principalisti”, determinando un radicale mutamento di equilibri all’interno dello stesso ambito dei conservatori.

Questa generazione, e le sue frange politiche più estreme che oggi dominano il parlamento e ampi spazi delle istituzioni, ritiene che lo spazio per il compromesso e la pazienza sia ormai esaurito da tempo, chiedendo a gran voce l’adozione di una postura nuova, e ben più assertiva, dell’Iran.

La distruzione del consolato iraniano a Damasco e la morte di alcuni alti ufficiali delle Forze Quds dell’IRGC, tra i quali il generale Mohammad Reza Zahedi, hanno fornito il pretesto per chiedere con insistenza alla Guida, se non addirittura pretendere, l’adozione di una nuova e ben diversa strategia contro Israele e i suoi alleati. Una strategia orientata alla risposta militare diretta, che porti “le impronte” visibili di Tehran, dettata dalla percezione dell’ormai più totale assenza di opzioni negoziali d’interesse con i paesi occidentali e idealmente capace di ristabilire la credibilità dell’Iran e il suo ruolo nella regione.

Un rinnovato interventismo che pone tuttavia enormi interrogativi nel merito delle possibili conseguenze, che non sfuggono alla Guida Suprema e all’ormai ristretta cerchia di esponenti di prima generazione, che del principio di sicurezza del paese attraverso la “difesa avanzata” e dell’imperativo divieto di superare la “linea rossa” hanno fatto ormai un mantra.

Il quadro è invece oggi radicalmente mutato. La Guida Suprema è oggetto di costanti e crescenti pressioni per avallare la linea dell’interventismo, che Khamenei vorrebbe presumibilmente stemperare attraverso l’identificazione di soluzioni alternative, pur sostenibili per la credibilità dell’Iran. È stato sin dal primo momento comunicato agli Stati Uniti, attraverso ogni possibile canale diretto e indiretto, che un’eventuale guerra nella regione li coinvolgerebbe, in conseguenza del loro ruolo al fianco di Israele. Un messaggio che in molti hanno interpretato come un tentativo di convincere persino Washington dell’enorme pericolo di un’escalation regionale.

L’Iran ha lamentato inoltre l’assenza di condanna da parte dei paesi occidentali dell’attacco subito a Damasco, e della grave violazione del diritto internazionale da parte di Israele, aggiungendo come la mancata pronuncia del Consiglio di Sicurezza di fatto costringa il paese ad esercitare una propria ritorsione diretta. Ancora una volta un’esternazione che in molti hanno letto come un invito a promuovere una forte azione politica sul piano della condanna dell’azione di Israele, al fine di scongiurare ulteriori e ben più gravi scenari di crisi.

Messaggi che non hanno prodotto alcun tangibile risultato, però, se non un proliferare di contatti indiretti tra gli USA e l’Iran attraverso i principali attori internazionali, così come le numerose conversazioni dell’ultim’ora tra i ministri degli esteri occidentali e il loro omologo iraniano Amirabdollahian, tutti nel solco di un invito alla prudenza e alla moderazione.

L’assenza di posizioni più incisive ha invece rafforzato le posizioni delle frange più intransigenti della politica iraniana, che hanno avuto gioco facile nel dimostrare come soprattutto i paesi occidentali non abbiano voluto riconoscere alla Repubblica Islamica alcuna ragione. Una posizione che porta quindi l‘opzione di un intervento militare alla massima soglia delle possibilità, facendo temere per imprevedibili quanto potenzialmente catastrofiche conseguenze.

I cinque scenari possibili

Cosa potrà decidere di fare quindi l’Iran nel caso in cui l’opzione militare diventi ormai ineluttabile? Molte sono al momento le opzioni sul tavolo, e alcune di queste sono caratterizzate da un maggiore grado di possibilità.

La prima è quella di un attacco missilistico e con droni diretto, dal territorio iraniano (ma anche dalla Siria o dall’Iraq) verso quello israeliano. Si tratta dello scenario peggiore, che comporterebbe una quasi immediata risposta israeliana e, con ogni probabilità, ad un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto. La risposta militare di Israele, tuttavia, potrebbe essere pesantissima e colpire in profondità l’Iran, determinando un risultato catastrofico sul piano della credibilità militare di Tehran, e innescando quasi certamente un certamente un conflitto di più ampie dimensioni che in breve tempo arriverebbe a lambire i confini del paese. L’antitesi dunque del principio di “difesa avanzata che sino ad oggi ha rappresentato la visione strategica dell’Iran.

Il secondo scenario potrebbe essere quello definibile come della “zona grigia”, colpendo Israele in modo diretto ma su una porzione di territorio (il Golan, nel caso specifico) che Israele considera come parte del suo territorio ma che numerosi paesi della regione – la Siria prima di tutti – considerano come semplicemente occupato. Una sorte di zona neutra, che soddisfa la necessità di colpire Israele, di farlo con piena attribuzione della responsabilità dell’Iran, ma che al tempo stesso auspicabilmente produca conseguenza di minore portata e impedisca un ingresso degli Stati Uniti nel conflitto.

Il terzo scenario è quello dell’impiego degli alleati regionali, i cosiddetti proxy dell’Asse della Resistenza, che tuttavia pone due incognite non secondarie. La prima è quella della mancanza di un’attribuzione diretta e palese, che le frange più oltranziste chiedono a gran voce, e la seconda è invece connessa allo scarso interesse dei proxy stessi di diventare l’obiettivo primario – e forse unico – della risposta israeliana.

Il quarto scenario è quello del ricorso al terrorismo, colpendo a loro volta un’ambasciata israeliana o altri interessi di Israele all’estero. Un’opzione che tuttavia pone il concreto rischio della condanna internazionale, della probabile ritorsione sul piano delle relazioni diplomatiche con numerosi paesi e, di fatto, un incremento del già accentuato isolamento internazionale.

Il quinto, allo stato attuale il più improbabile ma non impossibile, è quello della risposta politica, trasformando i numerosi contatti internazionali dell’ultim’ora per scongiurare il conflitto in una richiesta di riconoscimento delle responsabilità israeliane e di formale condanna di quanto avvenuto a Damasco. Strada impervia oggi, ma non impercorribile, che potrebbe consentire al tempo stesso di ottenere benefici occulti sul piano delle sanzioni.

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Dove, come e soprattutto quando colpirà l’Iran nello sferrare la propria ritorsione contro Israele per l’attacco al consolato di Damasco? Questa è la domanda che tutte le cancellerie si pongono in queste ore angosciose d’attesa, che sembrano precedere l’inizio di una nuova crisi che potrebbe potenzialmente portare ad una guerra di ampie proporzioni in Medio Oriente. Non più una questione di “se”, ma ormai solo di “quando” e “come”. A dispetto della palpabile tensione, tuttavia, molti sono ancora gli scenari, e soprattutto i tempi possibili per l’avvio di questa nuova dinamica di crisi regionale.

Il dilemma strategico nel dibattito politico iraniano

La premessa al possibile – e alquanto probabile – attacco iraniano contro Israele deve necessariamente transitare attraverso una considerazione preliminare di politica interna. La scelta della ritorsione è infatti parte di un calcolo strategico molto complesso, divisivo e altamente polarizzante nell’ambito del sistema politico iraniano. La Guida Suprema, Ali Khamenei, rappresenta oggi il residuale e minoritario baluardo della prima generazione del potere, da sempre caratterizzata da un pronunciato pragmatismo e dalla volontà di non varcare quella “linea rossa” che potrebbe condurre un conflitto a lambire i confini dell’Iran. Khamenei ha sino ad oggi esercitato quella cosiddetta “pazienza strategica” che è riuscita a contenere le spinte più irruente e aggressive degli esponenti militari e di seconda generazione, anche di fronte all’uccisione del generale Soleimani a Bagdad, dei continui bombardamenti delle proprie unità militari in Siria e il sistematico targeting dei propri scienziati coinvolti nello sviluppo del controverso programma nucleare. Al tempo stesso ha favorito la continuità di una “escalation controllata” con Israele, anche dopo i tragici fatti dello scorso 7 ottobre, mantenendo alta la pressione su Israele attraverso i propri alleati regionali, dei quali ha tuttavia più subito l’effetto delle loro intemperanze che non gestito l’azione.

La seconda generazione del potere ha idee e posizioni ideologiche alquanto diverse dalla prima, soprattutto in seno all’apparato di potere dell’IRGC, i Pasdaran, che controllano non solo un vasto sistema militare, ma anche la strategica componente dell’industria militare, oltre ad essere ampiamente rappresentati nel tessuto della politica nazionale.

Questa generazione ha ormai definitivamente assunto il controllo del paese, pur in presenza di una residuale e ormai quasi simbolica rappresentatività della prima generazione al vertice delle istituzioni. Alle ultime elezioni parlamentari dello scorso marzo, inoltre, la componente più oltranzista del sistema conservatore, i cosiddetti Paydari, ha ampiamente surclassato la frangia tradizionalista, i “principalisti”, determinando un radicale mutamento di equilibri all’interno dello stesso ambito dei conservatori.

Questa generazione, e le sue frange politiche più estreme che oggi dominano il parlamento e ampi spazi delle istituzioni, ritiene che lo spazio per il compromesso e la pazienza sia ormai esaurito da tempo, chiedendo a gran voce l’adozione di una postura nuova, e ben più assertiva, dell’Iran.

La distruzione del consolato iraniano a Damasco e la morte di alcuni alti ufficiali delle Forze Quds dell’IRGC, tra i quali il generale Mohammad Reza Zahedi, hanno fornito il pretesto per chiedere con insistenza alla Guida, se non addirittura pretendere, l’adozione di una nuova e ben diversa strategia contro Israele e i suoi alleati. Una strategia orientata alla risposta militare diretta, che porti “le impronte” visibili di Tehran, dettata dalla percezione dell’ormai più totale assenza di opzioni negoziali d’interesse con i paesi occidentali e idealmente capace di ristabilire la credibilità dell’Iran e il suo ruolo nella regione.

Un rinnovato interventismo che pone tuttavia enormi interrogativi nel merito delle possibili conseguenze, che non sfuggono alla Guida Suprema e all’ormai ristretta cerchia di esponenti di prima generazione, che del principio di sicurezza del paese attraverso la “difesa avanzata” e dell’imperativo divieto di superare la “linea rossa” hanno fatto ormai un mantra.

Il quadro è invece oggi radicalmente mutato. La Guida Suprema è oggetto di costanti e crescenti pressioni per avallare la linea dell’interventismo, che Khamenei vorrebbe presumibilmente stemperare attraverso l’identificazione di soluzioni alternative, pur sostenibili per la credibilità dell’Iran. È stato sin dal primo momento comunicato agli Stati Uniti, attraverso ogni possibile canale diretto e indiretto, che un’eventuale guerra nella regione li coinvolgerebbe, in conseguenza del loro ruolo al fianco di Israele. Un messaggio che in molti hanno interpretato come un tentativo di convincere persino Washington dell’enorme pericolo di un’escalation regionale.

L’Iran ha lamentato inoltre l’assenza di condanna da parte dei paesi occidentali dell’attacco subito a Damasco, e della grave violazione del diritto internazionale da parte di Israele, aggiungendo come la mancata pronuncia del Consiglio di Sicurezza di fatto costringa il paese ad esercitare una propria ritorsione diretta. Ancora una volta un’esternazione che in molti hanno letto come un invito a promuovere una forte azione politica sul piano della condanna dell’azione di Israele, al fine di scongiurare ulteriori e ben più gravi scenari di crisi.

Messaggi che non hanno prodotto alcun tangibile risultato, però, se non un proliferare di contatti indiretti tra gli USA e l’Iran attraverso i principali attori internazionali, così come le numerose conversazioni dell’ultim’ora tra i ministri degli esteri occidentali e il loro omologo iraniano Amirabdollahian, tutti nel solco di un invito alla prudenza e alla moderazione.

L’assenza di posizioni più incisive ha invece rafforzato le posizioni delle frange più intransigenti della politica iraniana, che hanno avuto gioco facile nel dimostrare come soprattutto i paesi occidentali non abbiano voluto riconoscere alla Repubblica Islamica alcuna ragione. Una posizione che porta quindi l‘opzione di un intervento militare alla massima soglia delle possibilità, facendo temere per imprevedibili quanto potenzialmente catastrofiche conseguenze.

I cinque scenari possibili

Cosa potrà decidere di fare quindi l’Iran nel caso in cui l’opzione militare diventi ormai ineluttabile? Molte sono al momento le opzioni sul tavolo, e alcune di queste sono caratterizzate da un maggiore grado di possibilità.

La prima è quella di un attacco missilistico e con droni diretto, dal territorio iraniano (ma anche dalla Siria o dall’Iraq) verso quello israeliano. Si tratta dello scenario peggiore, che comporterebbe una quasi immediata risposta israeliana e, con ogni probabilità, ad un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti nel conflitto. La risposta militare di Israele, tuttavia, potrebbe essere pesantissima e colpire in profondità l’Iran, determinando un risultato catastrofico sul piano della credibilità militare di Tehran, e innescando quasi certamente un certamente un conflitto di più ampie dimensioni che in breve tempo arriverebbe a lambire i confini del paese. L’antitesi dunque del principio di “difesa avanzata che sino ad oggi ha rappresentato la visione strategica dell’Iran.

Il secondo scenario potrebbe essere quello definibile come della “zona grigia”, colpendo Israele in modo diretto ma su una porzione di territorio (il Golan, nel caso specifico) che Israele considera come parte del suo territorio ma che numerosi paesi della regione – la Siria prima di tutti – considerano come semplicemente occupato. Una sorte di zona neutra, che soddisfa la necessità di colpire Israele, di farlo con piena attribuzione della responsabilità dell’Iran, ma che al tempo stesso auspicabilmente produca conseguenza di minore portata e impedisca un ingresso degli Stati Uniti nel conflitto.

Il terzo scenario è quello dell’impiego degli alleati regionali, i cosiddetti proxy dell’Asse della Resistenza, che tuttavia pone due incognite non secondarie. La prima è quella della mancanza di un’attribuzione diretta e palese, che le frange più oltranziste chiedono a gran voce, e la seconda è invece connessa allo scarso interesse dei proxy stessi di diventare l’obiettivo primario – e forse unico – della risposta israeliana.

Il quarto scenario è quello del ricorso al terrorismo, colpendo a loro volta un’ambasciata israeliana o altri interessi di Israele all’estero. Un’opzione che tuttavia pone il concreto rischio della condanna internazionale, della probabile ritorsione sul piano delle relazioni diplomatiche con numerosi paesi e, di fatto, un incremento del già accentuato isolamento internazionale.

Il quinto, allo stato attuale il più improbabile ma non impossibile, è quello della risposta politica, trasformando i numerosi contatti internazionali dell’ultim’ora per scongiurare il conflitto in una richiesta di riconoscimento delle responsabilità israeliane e di formale condanna di quanto avvenuto a Damasco. Strada impervia oggi, ma non impercorribile, che potrebbe consentire al tempo stesso di ottenere benefici occulti sul piano delle sanzioni.

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Il dilemma strategico dell’Iran e i cinque possibili scenari della crisi

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13.04.2024

Dove, come e soprattutto quando colpirà l’Iran nello sferrare la propria ritorsione contro Israele per l’attacco al consolato di Damasco? Questa è la domanda che tutte le cancellerie si pongono in queste ore angosciose d’attesa, che sembrano precedere l’inizio di una nuova crisi che potrebbe potenzialmente portare ad una guerra di ampie proporzioni in Medio Oriente. Non più una questione di “se”, ma ormai solo di “quando” e “come”. A dispetto della palpabile tensione, tuttavia, molti sono ancora gli scenari, e soprattutto i tempi possibili per l’avvio di questa nuova dinamica di crisi regionale.

Il dilemma strategico nel dibattito politico iraniano

La premessa al possibile – e alquanto probabile – attacco iraniano contro Israele deve necessariamente transitare attraverso una considerazione preliminare di politica interna. La scelta della ritorsione è infatti parte di un calcolo strategico molto complesso, divisivo e altamente polarizzante nell’ambito del sistema politico iraniano. La Guida Suprema, Ali Khamenei, rappresenta oggi il residuale e minoritario baluardo della prima generazione del potere, da sempre caratterizzata da un pronunciato pragmatismo e dalla volontà di non varcare quella “linea rossa” che potrebbe condurre un conflitto a lambire i confini dell’Iran. Khamenei ha sino ad oggi esercitato quella cosiddetta “pazienza strategica” che è riuscita a contenere le spinte più irruente e aggressive degli esponenti militari e di seconda generazione, anche di fronte all’uccisione del generale Soleimani a Bagdad, dei continui bombardamenti delle proprie unità militari in Siria e il sistematico targeting dei propri scienziati coinvolti nello sviluppo del controverso programma nucleare. Al tempo stesso ha favorito la continuità di una “escalation controllata” con Israele, anche dopo i tragici fatti dello scorso 7 ottobre, mantenendo alta la pressione su Israele attraverso i propri alleati regionali, dei quali ha tuttavia più subito l’effetto delle loro intemperanze che non gestito l’azione.

La seconda generazione del potere ha idee e posizioni ideologiche alquanto diverse dalla prima, soprattutto in seno all’apparato di potere dell’IRGC, i Pasdaran, che controllano non solo un vasto sistema militare, ma anche la strategica componente dell’industria militare, oltre ad essere ampiamente rappresentati nel tessuto della politica nazionale.

Questa generazione ha ormai definitivamente assunto il controllo del paese, pur in presenza di una residuale e ormai quasi simbolica rappresentatività della prima generazione al vertice delle istituzioni. Alle ultime elezioni parlamentari dello scorso marzo, inoltre, la componente più oltranzista del sistema conservatore, i cosiddetti Paydari, ha ampiamente surclassato la frangia tradizionalista, i “principalisti”, determinando un radicale mutamento di equilibri all’interno dello stesso ambito dei conservatori.

Questa generazione, e le sue frange politiche più estreme che oggi dominano il parlamento e ampi spazi delle istituzioni, ritiene che lo spazio per il compromesso e la pazienza sia ormai esaurito da tempo, chiedendo a gran voce l’adozione di una postura nuova, e ben più assertiva, dell’Iran.

La distruzione del consolato iraniano a Damasco e la morte di alcuni alti ufficiali delle Forze Quds dell’IRGC, tra i quali il generale Mohammad Reza Zahedi, hanno fornito il pretesto per chiedere con insistenza alla Guida, se non addirittura pretendere, l’adozione di una nuova e ben diversa strategia contro Israele e i suoi alleati. Una strategia orientata alla risposta militare diretta, che porti “le impronte” visibili di Tehran, dettata dalla percezione dell’ormai più totale assenza di opzioni negoziali d’interesse con i paesi occidentali e idealmente capace di ristabilire la credibilità dell’Iran e il suo ruolo nella regione.

Un rinnovato interventismo che pone tuttavia enormi interrogativi nel merito delle possibili conseguenze, che non sfuggono alla Guida Suprema e all’ormai ristretta cerchia di esponenti di prima generazione, che del principio di sicurezza del paese attraverso la “difesa avanzata” e dell’imperativo divieto di superare la “linea rossa” hanno fatto ormai un mantra.

Il quadro è invece oggi radicalmente mutato. La Guida Suprema è oggetto di costanti e crescenti pressioni per avallare la linea dell’interventismo, che Khamenei vorrebbe presumibilmente stemperare attraverso l’identificazione di soluzioni alternative, pur sostenibili per la credibilità dell’Iran. È stato sin dal primo momento comunicato agli Stati Uniti, attraverso ogni possibile canale diretto e indiretto, che un’eventuale guerra nella regione li coinvolgerebbe, in conseguenza del........

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