Come in un racconto di Cechov, lo sguardo di una donna che entra in un negozio di barberia rimasto in piedi a Bologna dopo i bombardamenti e la liberazione, devierà per sempre, da qualsiasi altra orbita, o destino, la vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Pupi Avati (che, come succede ormai da diverse stagioni, sta per diventare anche un suo film), L’orto americano (Solferino).

È un'Italia di canneti e paludi dove galleggiano ancora cadaveri di soldati alleati ma anche quelli di donne uccise e mutilate da un serial killer, un’Italia dove è comune incrociare dentature imperfette, senza un canino e dove il cielo è solcato dall’aeroplanino che fa la pubblicità di Radio Marelli: è un’Italia, soprattutto, dove ancora esiste la pena di morte, alla quale rischia di andare inesorabilmente incontro uno dei personggi accusato di sequestro di persona, omicidio volontario aggravato e vilipendio di cadavere.

Ma se la seconda parte, la più incalzante, è perlopiù occupata da un courtroom drama in costume, un thriller processuale ambientato a metà degli anni ’40, tutto lo sguardo del racconto è dominato dalla voce narrante che appartiene a un giovane con sensibili turbe, il quale, dopo aver intercettato l’immagine indimenticabile di una infermiera americana in servizio in Italia, finisce per investire buona parte della propria vita nella sua ricerca, tra l’America e l’Italia, indagando sulla sua scomparsa che incrocia inevitabilmente le vicende dell’assassino seriale.

Chi conosce un po’ l’opera di Pupi Avati sa che la sua abilità nel maneggiare con virtuosismo i registri dell’horror è pari alla profondità crepuscolare con la quale innesca nei suoi protagonisti rimpianti abissali e il cupo splendore di sentimenti irrisolti, troppo grandi per un uomo solo: in questo romanzo, forse, per la prima volta, il terrore magnetico, come in una novella di fine ‘800, di topi che scavano dentro spoglie umane, fucilazioni e bare che si scoperchiano, di mutilazioni genitali e cieli pieni di cattive nubi di cui non riescono a liberarsi, stinge nel romanticismo autodistruttivo di chi non riesce a disfarsi dello sguardo di una donna che ha marcato a fuoco il suo cuore, per sempre.

E alla fine la vera sfida, decisamente inclusiva, di questo romanzo, è: può uno schizofrenico paranoico che parla con le foto di tre zie suicide e sente urlare sotto la terra barattoli che conservano reliquie organiche innominabili, svelare il mistero di un serial killer che insanguina di cadaveri deturpati di belle donne? In fondo, come scrive Avati, sono entrambi personaggi che, per difendersi dal dolore, si sono dimessi dalla realtà. Ma, come ogni buon thriller, il colpo di scena finale, l’irruzione della vertà, metterà entrambi, e soprattutto il lettore, in una posizione di ansiogena tensione.

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Come in un racconto di Cechov, lo sguardo di una donna che entra in un negozio di barberia rimasto in piedi a Bologna dopo i bombardamenti e la liberazione, devierà per sempre, da qualsiasi altra orbita, o destino, la vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Pupi Avati (che, come succede ormai da diverse stagioni, sta per diventare anche un suo film), L’orto americano (Solferino).

È un'Italia di canneti e paludi dove galleggiano ancora cadaveri di soldati alleati ma anche quelli di donne uccise e mutilate da un serial killer, un’Italia dove è comune incrociare dentature imperfette, senza un canino e dove il cielo è solcato dall’aeroplanino che fa la pubblicità di Radio Marelli: è un’Italia, soprattutto, dove ancora esiste la pena di morte, alla quale rischia di andare inesorabilmente incontro uno dei personggi accusato di sequestro di persona, omicidio volontario aggravato e vilipendio di cadavere.

Ma se la seconda parte, la più incalzante, è perlopiù occupata da un courtroom drama in costume, un thriller processuale ambientato a metà degli anni ’40, tutto lo sguardo del racconto è dominato dalla voce narrante che appartiene a un giovane con sensibili turbe, il quale, dopo aver intercettato l’immagine indimenticabile di una infermiera americana in servizio in Italia, finisce per investire buona parte della propria vita nella sua ricerca, tra l’America e l’Italia, indagando sulla sua scomparsa che incrocia inevitabilmente le vicende dell’assassino seriale.

Chi conosce un po’ l’opera di Pupi Avati sa che la sua abilità nel maneggiare con virtuosismo i registri dell’horror è pari alla profondità crepuscolare con la quale innesca nei suoi protagonisti rimpianti abissali e il cupo splendore di sentimenti irrisolti, troppo grandi per un uomo solo: in questo romanzo, forse, per la prima volta, il terrore magnetico, come in una novella di fine ‘800, di topi che scavano dentro spoglie umane, fucilazioni e bare che si scoperchiano, di mutilazioni genitali e cieli pieni di cattive nubi di cui non riescono a liberarsi, stinge nel romanticismo autodistruttivo di chi non riesce a disfarsi dello sguardo di una donna che ha marcato a fuoco il suo cuore, per sempre.

E alla fine la vera sfida, decisamente inclusiva, di questo romanzo, è: può uno schizofrenico paranoico che parla con le foto di tre zie suicide e sente urlare sotto la terra barattoli che conservano reliquie organiche innominabili, svelare il mistero di un serial killer che insanguina di cadaveri deturpati di belle donne? In fondo, come scrive Avati, sono entrambi personaggi che, per difendersi dal dolore, si sono dimessi dalla realtà. Ma, come ogni buon thriller, il colpo di scena finale, l’irruzione della vertà, metterà entrambi, e soprattutto il lettore, in una posizione di ansiogena tensione.

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Pupi Avati torna al thriller, in un'Italia di canneti e paludi

6 1
08.01.2024

Come in un racconto di Cechov, lo sguardo di una donna che entra in un negozio di barberia rimasto in piedi a Bologna dopo i bombardamenti e la liberazione, devierà per sempre, da qualsiasi altra orbita, o destino, la vita del protagonista dell’ultimo romanzo di Pupi Avati (che, come succede ormai da diverse stagioni, sta per diventare anche un suo film), L’orto americano (Solferino).

È un'Italia di canneti e paludi dove galleggiano ancora cadaveri di soldati alleati ma anche quelli di donne uccise e mutilate da un serial killer, un’Italia dove è comune incrociare dentature imperfette, senza un canino e dove il cielo è solcato dall’aeroplanino che fa la pubblicità di Radio Marelli: è un’Italia, soprattutto, dove ancora esiste la pena di morte, alla quale rischia di andare inesorabilmente incontro uno dei personggi accusato di sequestro di persona, omicidio volontario aggravato e vilipendio di cadavere.

Ma se la seconda parte, la più incalzante, è perlopiù occupata da un courtroom drama in costume, un thriller processuale ambientato a metà degli anni ’40, tutto lo sguardo del racconto è dominato dalla voce narrante che appartiene a un giovane con sensibili turbe, il quale, dopo aver intercettato l’immagine indimenticabile di una infermiera americana in servizio in Italia, finisce per investire buona parte della propria vita nella sua ricerca, tra l’America e l’Italia, indagando sulla sua scomparsa che incrocia........

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