Il teatro continua a essere, con la sua inattualità di antica pratica scenica della vera presenza, così diversa dal mondo circostante, mondo tecnologico e globale, un luogo in cui si possono avere utili segnali di come evolve la nostra contemporaneità.

L’arte totale di Romeo Castellucci, forte di una lunga e premiata carriera, prima con la Societas Raffaello Sanzio e ora da solo, che ne ha fatto uno dei massimi registi europei, ha da sempre praticato questo paradosso. Lo fa anche con la sua nuova opera, un adattamento libero di “Bérénice”, tragedia di Jean Racine, che dal 1670 il regista cesenate proietta sulla postmodernità, alle prese con un processo radicale che contempla anche il possibile esaurimento della stessa cultura occidentale.

La produzione dello spettacolo è di Societas, Cesena e Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier. Tra i molti co-produttori europei, per l’Italia ci sono Teatro di Napoli (dove sarà– Teatro Nazionale Triennale Milano, che ne ha ospitato la prima nazionale come clou del Festival FOG diretto da Umberto Angelini.

Castellucci ha liberamente ritagliato il testo di Racine, estraendo le parti del solo personaggio protagonista e nelle quasi due ore di spettacolo a parlare sarà solo lei, Bérénice, interpretata magistralmente da Isabelle Huppert, attrice iconica che Castellucci integra nella rielaborazione di Racine. Castellucci si concentra sulla parte finale della tragedia, il presupposto è in un cartoncino dato agli spettatori. Bérénice, principessa giudaica di Cilicia, ama, riamata, Tito il figlio dell’imperatore Vespasiano, conosciuto durante la guerra di Giudea che i romani vincono. Alleato di Tito è stato Antioco, re di Comagena, che a sua volta ama, senza speranza e in segreto, Bérénice. Al termine della missione Tito porta a Roma, per sposarla, Bérénice ma anche l’amico Antioco come ricompensa militare. Muore però il padre e Tito diventa imperatore. Il Senato gli vieta di sposare una straniera. Tito si piega e lascia Bérénice, ma non avendo il coraggio di farlo di persona, manda proprio Antioco ad annunciarlo. Bérénice sgomenta va da Tito per capire, lo trova in lacrime, ne comprende i sentimenti ma non la scelta, rinuncia però al suicidio e accetta di partire.

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Il teatro continua a essere, con la sua inattualità di antica pratica scenica della vera presenza, così diversa dal mondo circostante, mondo tecnologico e globale, un luogo in cui si possono avere utili segnali di come evolve la nostra contemporaneità.

L’arte totale di Romeo Castellucci, forte di una lunga e premiata carriera, prima con la Societas Raffaello Sanzio e ora da solo, che ne ha fatto uno dei massimi registi europei, ha da sempre praticato questo paradosso. Lo fa anche con la sua nuova opera, un adattamento libero di “Bérénice”, tragedia di Jean Racine, che dal 1670 il regista cesenate proietta sulla postmodernità, alle prese con un processo radicale che contempla anche il possibile esaurimento della stessa cultura occidentale.

La produzione dello spettacolo è di Societas, Cesena e Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier. Tra i molti co-produttori europei, per l’Italia ci sono Teatro di Napoli (dove sarà– Teatro Nazionale Triennale Milano, che ne ha ospitato la prima nazionale come clou del Festival FOG diretto da Umberto Angelini.

Castellucci ha liberamente ritagliato il testo di Racine, estraendo le parti del solo personaggio protagonista e nelle quasi due ore di spettacolo a parlare sarà solo lei, Bérénice, interpretata magistralmente da Isabelle Huppert, attrice iconica che Castellucci integra nella rielaborazione di Racine. Castellucci si concentra sulla parte finale della tragedia, il presupposto è in un cartoncino dato agli spettatori. Bérénice, principessa giudaica di Cilicia, ama, riamata, Tito il figlio dell’imperatore Vespasiano, conosciuto durante la guerra di Giudea che i romani vincono. Alleato di Tito è stato Antioco, re di Comagena, che a sua volta ama, senza speranza e in segreto, Bérénice. Al termine della missione Tito porta a Roma, per sposarla, Bérénice ma anche l’amico Antioco come ricompensa militare. Muore però il padre e Tito diventa imperatore. Il Senato gli vieta di sposare una straniera. Tito si piega e lascia Bérénice, ma non avendo il coraggio di farlo di persona, manda proprio Antioco ad annunciarlo. Bérénice sgomenta va da Tito per capire, lo trova in lacrime, ne comprende i sentimenti ma non la scelta, rinuncia però al suicidio e accetta di partire.

Bérénice parla, si dispera, si interroga sulle ragioni di un amore che rinuncia a sé, implode. La presenza di Huppert fa risaltare il vuoto, in questo caso dell’altro, di Tito e del suo silenzio. Bérénice parla come a un muro, che qui è un muro acustico. Le rarefazioni elettroniche della voce di Huppert sono parte della cura musicale di Scott Gibbon, che da anni collabora con Castellucci, e che ha creato una bellissima partitura, piena di echi e atmosfere di volta in volta ipnotiche, minimali, violente o distorte. Il suono è usato anche come “personaggio” anzi due, quelli di Tito e Antioco. Espunte le parole dei due uomini, Castellucci le evoca solo in forma di interazioni acustiche. Quando compariranno in scena, Tito e Antioco, nei corpi esibiti dei danzatori efebici e adolescenziali di Cheikh Kébé e Giovanni Manzo, se ne acuisce il loro mutismo sterile. Il ragionamento di Bérénice si scontra col modo non-linguistico dei maschi. Come accade in certi film di fantascienza (“A.I.”, di Kubrick-Spielberg o “Arrival” di Villeneuve) e Tito, Antioco, i Senatori, sono come “alieni”.

Il regista da sempre ha scardinato i canoni dell’ontologia della rappresentazione (la mimesi e il linguaggio). Per chi si è stupito delle modalità di recitazione di Huppert (In Francia, durante il debutto assoluto le è stato gridato: “Isabelle non si capisce!”) va ricordata tra i molti precedenti, la potenza del monologo di Marco Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare, che con la Societas Raffaello Sanzio, portò in scena nel 1997, interpretato da una persona muta, che si sparava ossigeno in gola per far risuonare un’eco distorta di parole, ridotte, anche qui, a sola aria. C’era in quella scelta una sfiducia verso “l’attore” che oggi Castellucci sembra riformulare nella sua radicalità, puntando proprio su una diva del teatro che divora sé stessa e il personaggio.

La tragedia di Bérénice è anche quella di “Isabelle”, quando alla fine la sua tragedia si svela, il dolore amoroso è parte di una ferita originaria e crolla l’illusione di ciò che, chiamato, “amore” doveva colmare l’abisso con il linguaggio. Le parole franano, la soggettività con esse. Il linguaggio svela il suo impossibile, in cui “tutto è detto per essere nascosto” scrive Castellucci. E quando alla fine Huppert nomina sé stessa, man mano che la disgregazione procede verso l’afasia, la frattura acustica, del suo monologare è “Isabelle”, e non più Bérénice, in scena: lei, “sineddoche del teatro mondiale” la definisce Castellucci, che porta su di sé il limite di un ‘arte esausta, dentro la perdita storica della centralità dell’Occidente (Castellucci sul versante opposto a quello di Milo Rau, che scommette sulla sull’ Antigone fatta propria e rinnovata da popoli indigeni dell’Amazzonia). Alla fine nel “non mi guardate!” urlato da Bérénice, sprofondata nella solitudine, c’è anche Huppert e con lei, il teatro, arte oggi sul bordo estremo di dissolvimento, almeno per come lo abbiamo sempre conosciuto.

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La Bérénice di Castellucci: dalla tragedia dell’amore a quella del linguaggio

16 0
09.04.2024

Il teatro continua a essere, con la sua inattualità di antica pratica scenica della vera presenza, così diversa dal mondo circostante, mondo tecnologico e globale, un luogo in cui si possono avere utili segnali di come evolve la nostra contemporaneità.

L’arte totale di Romeo Castellucci, forte di una lunga e premiata carriera, prima con la Societas Raffaello Sanzio e ora da solo, che ne ha fatto uno dei massimi registi europei, ha da sempre praticato questo paradosso. Lo fa anche con la sua nuova opera, un adattamento libero di “Bérénice”, tragedia di Jean Racine, che dal 1670 il regista cesenate proietta sulla postmodernità, alle prese con un processo radicale che contempla anche il possibile esaurimento della stessa cultura occidentale.

La produzione dello spettacolo è di Societas, Cesena e Printemps des Comédiens / Cité du Théâtre Domaine d’O, Montpellier. Tra i molti co-produttori europei, per l’Italia ci sono Teatro di Napoli (dove sarà– Teatro Nazionale Triennale Milano, che ne ha ospitato la prima nazionale come clou del Festival FOG diretto da Umberto Angelini.

Castellucci ha liberamente ritagliato il testo di Racine, estraendo le parti del solo personaggio protagonista e nelle quasi due ore di spettacolo a parlare sarà solo lei, Bérénice, interpretata magistralmente da Isabelle Huppert, attrice iconica che Castellucci integra nella rielaborazione di Racine. Castellucci si concentra sulla parte finale della tragedia, il presupposto è in un cartoncino dato agli spettatori. Bérénice, principessa giudaica di Cilicia, ama, riamata, Tito il figlio dell’imperatore Vespasiano, conosciuto durante la guerra di Giudea che i romani vincono. Alleato di Tito è stato Antioco, re di Comagena, che a sua volta ama, senza speranza e in segreto, Bérénice. Al termine della missione Tito porta a Roma, per sposarla, Bérénice ma anche l’amico Antioco come ricompensa militare. Muore però il........

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