Anche sull’onda emotiva di rabbia per la morte di Giulia Cecchettin la Treccani ha decretato “femminicidio” parola dell’anno appena concluso. Eppure, in Italia molti dichiarano ancora che la violenza verso le donne in fondo non sarebbe un fenomeno così diffuso.

Una tesi fondata sui dati di uno studio di alcuni anni fa che mostra che i tassi più alti di violenza verso le donne (intimate partner violence) si registrano nei paesi con i migliori risultati in tema di parità di genere. Il 32% delle donne in Danimarca, il 30% in Finlandia, il 28% in Svezia e il 26,8% in Norvegia dichiarava di aver subito violenza in una relazione intima, contro una media europea del 22%.

C’è chi spiega questi dati con l’incapacità degli uomini di accettare l’emancipazione ottenuta dalle loro partner: non potendo esprimere il loro dominio nella società, indirizzerebbero la loro frustrazione contro mogli e fidanzate. C’è poi la tesi dettata dal maggior consumo di alcool fra gli uomini di questi paesi che li renderebbe più violenti. Altri ancora motivano questi risultati con la maggiore consapevolezza della parità di genere: le donne di queste nazioni sentendosi più libere e sicure denunciano pubblicamente con maggiore facilità la violenza subita rispetto alle donne di altri paesi, come l’Italia, dove si stima che solo il 5% delle violenze venga denunciato (studio Ipsad 2023). Queste le tesi più rappresentative che aiutano a comprendere le percentuali così alte dei paesi scandinavi, dove non vi sarebbe la “violenza sommersa” presente dove non si denuncia.

Se accostiamo questi risultati alle percentuali di oltre il 75% di donne occupate nel nord Europa (Eurostat 2021), dove vige ormai da decenni l’uguaglianza giuridica, alla media italiana del 53,2% (in Sicilia il 31,5%) emerge quello che è stato chiamato il paradosso nordico che fotografa una società dove le donne sono economicamente più libere, più consapevoli del loro valore, con pari diritti e un welfare più avanzato che permette di vivere le loro scelte con minori incertezze, ma, proprio per tutto questo, più esposte alle prepotenze e violenze, non solo domestiche, rispetto alle donne di paesi che registrano tassi di occupazione più bassi e legislazioni ancora in evoluzione nel sancire l’uguaglianza. Donne, queste ultime, che essendo meno indipendenti e percependo un contesto culturale e sociale meno sicuro sono portate a denunciare meno le ritorsioni, gli abusi e le violenze dei loro fidanzati, mariti e anche dei loro datori di lavoro.

Cosa fare? Tantissimo. Le discriminazioni vanno combattute nei luoghi di lavoro così come nella vita privata. Per farlo la parola chiave è rispetto.

Proseguire perciò il lavoro legislativo per sancire la parità, come sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione e, nello stesso tempo tutelare le altre forme di discriminazione collegate alla disabilità, all’orientamento sessuale, all’etnia, e così via.

Impegnarsi per coniugare il valore della relazione, della fiducia, della parità e del rispetto nei diversi contesti: famiglia, scuola, lavoro, relazioni sociali. Ad esempio, raramente sento spiegare la differenza tra bisogno e desiderio nei rapporti affettivi così come l’assurdità di associare l’amore al possesso.

Rispetto significa riconoscere il ruolo delle donne nei luoghi di lavoro per superare non solo i formalismi verbali dei ruoli declinati prima solo al maschile (avvocata, sindaca, e così via) ma anche sostanziali: riconoscere le capacità professionali, fare apprezzamenti legati alle capacità e ai risultati e non all’estetica.

Rispetto nella vita privata significa comprendere che anche la propria fidanzata o moglie possa uscire e incontrare altre persone uscendo da sola e possa, se lo desidera, chiudere una relazione. Rispetto che significa non avere atteggiamenti possessivi e controllanti.

Capire che esercitare la forza (economica, sociale, psicologica, fisica) con una donna non è dimostrazione di mascolinità ma di estrema debolezza. Se non si è capaci di vivere in modo sano una relazione si deve avvertire l’esigenza, e in questo caso sì, la forza – di farsi aiutare da specialisti che possono aiutare a capire gli ostacoli psicologici alla base di certi atteggiamenti per rimuoverli.

Il contrasto alla discriminazione e alla violenza contro le donne è un percorso molto lungo. Comporta per tutti, ma per noi uomini in particolare, cambiamenti culturali, oltre che normativi, di cui dobbiamo farci carico se vogliamo costruire un mondo meno violento. Promuovere o sostenere ogni forma di iniziativa a sostegno di questo cambiamento, difendere ogni donna potenziale vittima di violenze, anche solo verbali, sono passi nella giusta direzione. Facciamoli insieme, dimostriamo che siamo capaci di indignarci, non solo a parole.

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Anche sull’onda emotiva di rabbia per la morte di Giulia Cecchettin la Treccani ha decretato “femminicidio” parola dell’anno appena concluso. Eppure, in Italia molti dichiarano ancora che la violenza verso le donne in fondo non sarebbe un fenomeno così diffuso.

Una tesi fondata sui dati di uno studio di alcuni anni fa che mostra che i tassi più alti di violenza verso le donne (intimate partner violence) si registrano nei paesi con i migliori risultati in tema di parità di genere. Il 32% delle donne in Danimarca, il 30% in Finlandia, il 28% in Svezia e il 26,8% in Norvegia dichiarava di aver subito violenza in una relazione intima, contro una media europea del 22%.

C’è chi spiega questi dati con l’incapacità degli uomini di accettare l’emancipazione ottenuta dalle loro partner: non potendo esprimere il loro dominio nella società, indirizzerebbero la loro frustrazione contro mogli e fidanzate. C’è poi la tesi dettata dal maggior consumo di alcool fra gli uomini di questi paesi che li renderebbe più violenti. Altri ancora motivano questi risultati con la maggiore consapevolezza della parità di genere: le donne di queste nazioni sentendosi più libere e sicure denunciano pubblicamente con maggiore facilità la violenza subita rispetto alle donne di altri paesi, come l’Italia, dove si stima che solo il 5% delle violenze venga denunciato (studio Ipsad 2023). Queste le tesi più rappresentative che aiutano a comprendere le percentuali così alte dei paesi scandinavi, dove non vi sarebbe la “violenza sommersa” presente dove non si denuncia.

Se accostiamo questi risultati alle percentuali di oltre il 75% di donne occupate nel nord Europa (Eurostat 2021), dove vige ormai da decenni l’uguaglianza giuridica, alla media italiana del 53,2% (in Sicilia il 31,5%) emerge quello che è stato chiamato il paradosso nordico che fotografa una società dove le donne sono economicamente più libere, più consapevoli del loro valore, con pari diritti e un welfare più avanzato che permette di vivere le loro scelte con minori incertezze, ma, proprio per tutto questo, più esposte alle prepotenze e violenze, non solo domestiche, rispetto alle donne di paesi che registrano tassi di occupazione più bassi e legislazioni ancora in evoluzione nel sancire l’uguaglianza. Donne, queste ultime, che essendo meno indipendenti e percependo un contesto culturale e sociale meno sicuro sono portate a denunciare meno le ritorsioni, gli abusi e le violenze dei loro fidanzati, mariti e anche dei loro datori di lavoro.

Cosa fare? Tantissimo. Le discriminazioni vanno combattute nei luoghi di lavoro così come nella vita privata. Per farlo la parola chiave è rispetto.

Proseguire perciò il lavoro legislativo per sancire la parità, come sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione e, nello stesso tempo tutelare le altre forme di discriminazione collegate alla disabilità, all’orientamento sessuale, all’etnia, e così via.

Impegnarsi per coniugare il valore della relazione, della fiducia, della parità e del rispetto nei diversi contesti: famiglia, scuola, lavoro, relazioni sociali. Ad esempio, raramente sento spiegare la differenza tra bisogno e desiderio nei rapporti affettivi così come l’assurdità di associare l’amore al possesso.

Rispetto significa riconoscere il ruolo delle donne nei luoghi di lavoro per superare non solo i formalismi verbali dei ruoli declinati prima solo al maschile (avvocata, sindaca, e così via) ma anche sostanziali: riconoscere le capacità professionali, fare apprezzamenti legati alle capacità e ai risultati e non all’estetica.

Rispetto nella vita privata significa comprendere che anche la propria fidanzata o moglie possa uscire e incontrare altre persone uscendo da sola e possa, se lo desidera, chiudere una relazione. Rispetto che significa non avere atteggiamenti possessivi e controllanti.

Capire che esercitare la forza (economica, sociale, psicologica, fisica) con una donna non è dimostrazione di mascolinità ma di estrema debolezza. Se non si è capaci di vivere in modo sano una relazione si deve avvertire l’esigenza, e in questo caso sì, la forza – di farsi aiutare da specialisti che possono aiutare a capire gli ostacoli psicologici alla base di certi atteggiamenti per rimuoverli.

Il contrasto alla discriminazione e alla violenza contro le donne è un percorso molto lungo. Comporta per tutti, ma per noi uomini in particolare, cambiamenti culturali, oltre che normativi, di cui dobbiamo farci carico se vogliamo costruire un mondo meno violento. Promuovere o sostenere ogni forma di iniziativa a sostegno di questo cambiamento, difendere ogni donna potenziale vittima di violenze, anche solo verbali, sono passi nella giusta direzione. Facciamoli insieme, dimostriamo che siamo capaci di indignarci, non solo a parole.

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02.01.2024

Anche sull’onda emotiva di rabbia per la morte di Giulia Cecchettin la Treccani ha decretato “femminicidio” parola dell’anno appena concluso. Eppure, in Italia molti dichiarano ancora che la violenza verso le donne in fondo non sarebbe un fenomeno così diffuso.

Una tesi fondata sui dati di uno studio di alcuni anni fa che mostra che i tassi più alti di violenza verso le donne (intimate partner violence) si registrano nei paesi con i migliori risultati in tema di parità di genere. Il 32% delle donne in Danimarca, il 30% in Finlandia, il 28% in Svezia e il 26,8% in Norvegia dichiarava di aver subito violenza in una relazione intima, contro una media europea del 22%.

C’è chi spiega questi dati con l’incapacità degli uomini di accettare l’emancipazione ottenuta dalle loro partner: non potendo esprimere il loro dominio nella società, indirizzerebbero la loro frustrazione contro mogli e fidanzate. C’è poi la tesi dettata dal maggior consumo di alcool fra gli uomini di questi paesi che li renderebbe più violenti. Altri ancora motivano questi risultati con la maggiore consapevolezza della parità di genere: le donne di queste nazioni sentendosi più libere e sicure denunciano pubblicamente con maggiore facilità la violenza subita rispetto alle donne di altri paesi, come l’Italia, dove si stima che solo il 5% delle violenze venga denunciato (studio Ipsad 2023). Queste le tesi più rappresentative che aiutano a comprendere le percentuali così alte dei paesi scandinavi, dove non vi sarebbe la “violenza sommersa” presente dove non si denuncia.

Se accostiamo questi risultati alle percentuali di oltre il 75% di donne occupate nel nord Europa (Eurostat 2021), dove vige ormai da decenni l’uguaglianza giuridica, alla media italiana del 53,2% (in Sicilia il 31,5%) emerge quello che è stato chiamato il paradosso nordico che fotografa una società dove le donne sono economicamente più libere, più consapevoli del loro valore, con pari diritti e un welfare più avanzato che permette di vivere le loro scelte con minori incertezze, ma, proprio per tutto questo, più esposte alle prepotenze e violenze, non solo domestiche, rispetto alle donne di paesi che registrano tassi di occupazione più bassi e legislazioni ancora in evoluzione nel sancire l’uguaglianza. Donne, queste ultime, che essendo meno indipendenti e percependo un contesto culturale e sociale meno sicuro sono portate a denunciare meno le ritorsioni,........

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