Bizet, il miracolato secondo Nietzsche, scrivendo a un allievo prediletto, avanzò dubbi non certo trascurabili: "Esco dal Don Carlo. È molto brutto. Sapete che io sono eclettico; adoro La Traviata e Rigoletto. Don Carlo è una specie di compromesso. Non melodia, non accento; tende allo stile, ma vi tende... soltanto. L'impressione è stata disastrosa. È un fiasco completo, assoluto".

Una reazione istintiva, questa, non un giudizio: la delusione era autentica. Al di là dei suoi asserti violenti, si hanno tuttavia proposte di riflessione interessanti le quali, attraverso i decenni, approdano a Fedele d'Amico: il gran critico notava che, accettando i canoni del grand-opéra, Verdi affrontava qualcosa che si trovava al giusto opposto della sua poetica.

Merito essenziale di quest'opera, la capacità, dimostrata a evidenza, di rovesciare i personaggi, dimostrarne pieghe di inaudita segretezza. Quando, dopo tre atti meno felici (due nella versione in quattro, la migliore secondo me), si arriva al quadro nella stanza di Re Filippo, una serie di numeri eccezionali si fanno largo, anche per chi ha scritto il fabuloso primo atto de La Traviata, la scena con Sparafucile del Rigoletto, i due primi atti del Ballo in Maschera, primo e secondo atto de La forza del destino, il prologo del Boccanegra, per tacere della incombente Aida, sollevando il dramma ad una altezza sgomentevole: il fiato quasi si blocca di fronte all'aria del monarca desolato o di fronte alla passacaglia feroce del duetto tra Filippo e l'Inquisitore; inoltre il cantabile della principessa d'Eboli, "o mia regina", pura apoteosi del legato.

Anche i primi due atti hanno momenti sensazionali, purtroppo smarriti in un contesto a essi estraneo: la convenzione francese, appunto. Certo, a nessun compositore parigino sarebbe venuto in mente di optare, nel duetto fra il re e il marchese di Posa, per due tonalità diverse; né di valersi degli antichi modi con la finezza ben oltre la pedagogia Niedermeyer; né la libertà metrica che si afferma con tanto vigore, sapendo che Verdi se ne sarebbe voluto liberare del tutto: "Io credo... che per l'opera in musica moderna, bisognerebbe adottare il verso senza rima...

Più, le mot, che colpisce, e scolpisce, vien tal volta annegato in una frase causa sempre il verso e la rima". (Wagner annidandosi pian piano nel pensiero di Verdi: i due si riconosceranno più tardi!). Tuttavia, lo schema fondamentale dell'opera, che tante fatiche gli impose, tocca territori non appartenenti alla provincia verdiana.

Pessimo la "voce dal Cielo" che accoglie, come veri martiri, gli eretici immolati nell'autodafé; peggiore ancora la figura del frate che è e non è l'imperatore Carlo V e, se tale, sospeso fra morte e non si sa qual sopravvivenza: perché accettare soluzione così assurda e non la chiusa dell'originale schilleriano?

Secondo Julian Budden, il Don Carlo non è né di Verdi né di Schiller, ma "è un mito e in quanto tale può essere forzato fino a includere un monaco fantasma o una voce proveniente dal cielo". Budden vuole persuaderci di una tesi ovvia: la convenzionalità del teatro. Ma qualunque soluzione fantastica non può trovar tutte le sedi e in qualsivoglia stile. Una voce celeste può trovar degna sede in Tasso ma non certo in Ariosto.

Nel caso in questione, quelle situazioni sono estranee, incongrue, toccano zone dell'Essere che il contesto, realista come in tutto Verdi, assolutamente rifiuta. E qui si arriva al cuore della concezione: Verdi è un novellatore prodigioso, un inventore di romanzi cavallereschi, un formidabile puparo e sa benissimo che le vicende umane dipendono da divinità cieca. Stranamente, anche per lui si tratta del Caso, celebrato già in quegli anni dal nascente Simbolismo: le hasard appunto.

Davanti a questo motore occulto e inspiegabile, vi è la rappresentazione obiettiva ove l'invenzione si misura con la realtà e magari la soverchia oppure, all'opposto, con la partecipazione sentimentale, ovvero la pietà. Compito del compositore è la rappresentazione del singolo personaggio: le sue gioie, o le sue lacrime, devono essere quelle della musica, che mira solo a se stessa: le lacrime delle cose sono deboli elegie.

Adorno sosteneva da sempre come la musica, nella vicenda tragica, sia tutta dalla parte opposta al destino. Destino o carattere, come Benjamin ha spiegato per sempre: chi volesse sapere quali siano i caratteri ammissibili nel melodramma classico, in Verdi in primo luogo, non avrebbe che da leggere il bel libro di Gilles de Van, che li elenca tutti; o il saggio di Luigi Baldacci - letture obbliganti per chi di musica vuole sapere. Vi si noterà come la morfologia dei personaggi sia assai vasta e mutevole: ma non infinita. Se come padre Rigoletto è assai fastidioso, certo Fedor P. Karamazov non avrebbe potuto essere accolto fra quegli eroi, e forse nemmeno Re Lear, come i fatti dimostrerebbero. E se Carlos è un rivoltoso, come si potrebbe pensare di introdurre in un melodramma ribelli quali Stavrogin o Bazarov? Impossibile.

Scegliendo il Trauerspiel schilleriano, Verdi sapeva benissimo (aveva un fiuto infallibile per la teatralità) di avventurarsi in una zona aliena, financo proibita: riteneva che il dramma tedesco non presentasse caratteri shakesperiani (senza sapere però quanto la presenza di Shakespeare fosse decisiva per quel teatro) ma ne ammirava la nobiltà delle idee. Lettura molto italiana questa che sarà poi di Croce: poesia didascalica, ma...

Il personaggio di Posa decise il significato dell'opera: parteggia per i fiamminghi, solo questo sappiamo di lui. Ma le idee politiche non hanno risvolti psicologici, quanto meno non di immediata evidenza. Anche il protagonista è un tarantolato politico ma sostenuto da ben altre fiamme: un'avversione per il padre che la premessa dell'atto soppresso non giustifica appieno, antecedente alla gelosia (e qui siamo al centro della drammaturgia verdiana) e a un indimenticabile coup de foudre per Elisabetta.

Ma il rapporto con Posa altera lo spessore del personaggio: emerge tra i due una amicizia conclamata di cui, vista l'intensità, fino al sacrificio della vita, non si comprende la ragione, ben intuibile invece nei versi del gran poeta tedesco. Non a caso Thomas Mann, proprio attraverso una lettura suggerita ma non compiuta del dramma, raffigura una tipica infatuazione adolescente di Tonio Kroeger per il riottoso amico Hans: Tonio no lo sa, ma la sua è una reazione omoerotica: la stessa che lega Carlos a Posa.

Verdi lo sa ancora meno, troppa pruderie in lui, e purtroppo non ha altro che la sostituisca. Così Posa e, di riflesso, Carlos, divengono due congiurati senza ragioni sufficienti. Era utile concludere il quadro del carcere con una sommossa, sempre gradita nella capitale delle rivoluzioni? Impossibile, fu la prima risposta: perché si sarebbe dovuto "lasciare Posa (morto), sdrajato per terra dopo aver cantato un'aria faticosissima".

Sapeva, il gran teatrante, che sono proprio le parti deboli, banali, a essere ricordate, a sforare (Cajkovskij ne era ben consapevole), laddove sfuggono le raffinatezze, anche melodiche: così le quarte discendenti, di immobilità ieratica in un momento in cui il re sembra deciso ad affidarsi al pericoloso consigliere. Pochi momenti come questi, perfetto, possono dimostrare come il ritratto a tutto tondo di Filippo - difficile non pensarlo in termini tizianeschi - sia ben altra cosa che l'insignificante idealismo del suddito pur leale: Verdi si dichiarava sempre a favore di ogni quarantotto, ma quando arriva ai pentagrammi le sue certezze hanno, nei confronti dei sogni di Posa, una verità schiacciante: il re sa benissimo che solo con la forza si possa domare un paese. Niente di più machiavellico (e hobbesiano) che gli autocrati: possono fare una brutta fine, sicuramente, ma le maniere di Posa servirebbero solo ad anticiparla.

È incredibile come l'intuizione musicale di Verdi intervenga prontamente ovunque egli è all'unisono con la radicale sicurezza di anime forti: tra queste la stessa Eboli, dominata dal demone verdiano e capace di una strategia amorosa che doppia seduzione, moina e minaccia: Verdi aveva gran ragione affermando che se il terzetto del secondo atto fosse stato cantato "sul ritmo", sarebbe riuscito irresistibile.

Così Carlos acquista il necessario rilievo appunto dove subisce quelle fiere nature: persino il contegno della regina che non è affatto disposta a cedergli, non ostante i soavi ricordi di un'ora lontana. L'Infante non soffre per lei, non sono le sue pene d'amore perdute, ma inerti conati d'azione d'un destinato alla sconfitta: diagrammi perfetti di una situazione isterica.

Personaggio e vicenda risultano, in Verdi, un caso limite. Infine, un passaggio, il Don Carlos, di melodramma, fra i più convincenti, purtroppo messo a duro confronto, come si diceva, con una temperie estranea e financo odiosa: la tradizione francese.

Le voci di questa edizione scaligera, a parte qualche incertezza di intonazione, qualche filato poco convincente e una non ben approfondita definizione dei caratteri psico-emotivi dei personaggi, sono le migliori che oggi si possano trovare. Una particolare menzione va a Michele Pertusi che ha presentato un convincente Filippo II e la sua “Ella giammai m’amò” ha, in alcuni momenti, sfiorato la commozione. Regia di Lluìs Pasqual pulita e di base in linea con l’estetica dell’opera. Molto belli i costumi realizzati dalla gloriosa Franca Squarciapino, le scene di Daniel Bianco in linea con la regia di Pasqual. Sempre all’altezza delle aspettative il coro perfettamente preparato da Alberto Malazzi. Riccardo Chailly dirige con esperienza e talento indiscutibili e propone un Don Carlo asciutto e analitico.

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Bizet, il miracolato secondo Nietzsche, scrivendo a un allievo prediletto, avanzò dubbi non certo trascurabili: "Esco dal Don Carlo. È molto brutto. Sapete che io sono eclettico; adoro La Traviata e Rigoletto. Don Carlo è una specie di compromesso. Non melodia, non accento; tende allo stile, ma vi tende... soltanto. L'impressione è stata disastrosa. È un fiasco completo, assoluto".

Una reazione istintiva, questa, non un giudizio: la delusione era autentica. Al di là dei suoi asserti violenti, si hanno tuttavia proposte di riflessione interessanti le quali, attraverso i decenni, approdano a Fedele d'Amico: il gran critico notava che, accettando i canoni del grand-opéra, Verdi affrontava qualcosa che si trovava al giusto opposto della sua poetica.

Merito essenziale di quest'opera, la capacità, dimostrata a evidenza, di rovesciare i personaggi, dimostrarne pieghe di inaudita segretezza. Quando, dopo tre atti meno felici (due nella versione in quattro, la migliore secondo me), si arriva al quadro nella stanza di Re Filippo, una serie di numeri eccezionali si fanno largo, anche per chi ha scritto il fabuloso primo atto de La Traviata, la scena con Sparafucile del Rigoletto, i due primi atti del Ballo in Maschera, primo e secondo atto de La forza del destino, il prologo del Boccanegra, per tacere della incombente Aida, sollevando il dramma ad una altezza sgomentevole: il fiato quasi si blocca di fronte all'aria del monarca desolato o di fronte alla passacaglia feroce del duetto tra Filippo e l'Inquisitore; inoltre il cantabile della principessa d'Eboli, "o mia regina", pura apoteosi del legato.

Anche i primi due atti hanno momenti sensazionali, purtroppo smarriti in un contesto a essi estraneo: la convenzione francese, appunto. Certo, a nessun compositore parigino sarebbe venuto in mente di optare, nel duetto fra il re e il marchese di Posa, per due tonalità diverse; né di valersi degli antichi modi con la finezza ben oltre la pedagogia Niedermeyer; né la libertà metrica che si afferma con tanto vigore, sapendo che Verdi se ne sarebbe voluto liberare del tutto: "Io credo... che per l'opera in musica moderna, bisognerebbe adottare il verso senza rima...

Più, le mot, che colpisce, e scolpisce, vien tal volta annegato in una frase causa sempre il verso e la rima". (Wagner annidandosi pian piano nel pensiero di Verdi: i due si riconosceranno più tardi!). Tuttavia, lo schema fondamentale dell'opera, che tante fatiche gli impose, tocca territori non appartenenti alla provincia verdiana.

Pessimo la "voce dal Cielo" che accoglie, come veri martiri, gli eretici immolati nell'autodafé; peggiore ancora la figura del frate che è e non è l'imperatore Carlo V e, se tale, sospeso fra morte e non si sa qual sopravvivenza: perché accettare soluzione così assurda e non la chiusa dell'originale schilleriano?

Secondo Julian Budden, il Don Carlo non è né di Verdi né di Schiller, ma "è un mito e in quanto tale può essere forzato fino a includere un monaco fantasma o una voce proveniente dal cielo". Budden vuole persuaderci di una tesi ovvia: la convenzionalità del teatro. Ma qualunque soluzione fantastica non può trovar tutte le sedi e in qualsivoglia stile. Una voce celeste può trovar degna sede in Tasso ma non certo in Ariosto.

Nel caso in questione, quelle situazioni sono estranee, incongrue, toccano zone dell'Essere che il contesto, realista come in tutto Verdi, assolutamente rifiuta. E qui si arriva al cuore della concezione: Verdi è un novellatore prodigioso, un inventore di romanzi cavallereschi, un formidabile puparo e sa benissimo che le vicende umane dipendono da divinità cieca. Stranamente, anche per lui si tratta del Caso, celebrato già in quegli anni dal nascente Simbolismo: le hasard appunto.

Davanti a questo motore occulto e inspiegabile, vi è la rappresentazione obiettiva ove l'invenzione si misura con la realtà e magari la soverchia oppure, all'opposto, con la partecipazione sentimentale, ovvero la pietà. Compito del compositore è la rappresentazione del singolo personaggio: le sue gioie, o le sue lacrime, devono essere quelle della musica, che mira solo a se stessa: le lacrime delle cose sono deboli elegie.

Adorno sosteneva da sempre come la musica, nella vicenda tragica, sia tutta dalla parte opposta al destino. Destino o carattere, come Benjamin ha spiegato per sempre: chi volesse sapere quali siano i caratteri ammissibili nel melodramma classico, in Verdi in primo luogo, non avrebbe che da leggere il bel libro di Gilles de Van, che li elenca tutti; o il saggio di Luigi Baldacci - letture obbliganti per chi di musica vuole sapere. Vi si noterà come la morfologia dei personaggi sia assai vasta e mutevole: ma non infinita. Se come padre Rigoletto è assai fastidioso, certo Fedor P. Karamazov non avrebbe potuto essere accolto fra quegli eroi, e forse nemmeno Re Lear, come i fatti dimostrerebbero. E se Carlos è un rivoltoso, come si potrebbe pensare di introdurre in un melodramma ribelli quali Stavrogin o Bazarov? Impossibile.

Scegliendo il Trauerspiel schilleriano, Verdi sapeva benissimo (aveva un fiuto infallibile per la teatralità) di avventurarsi in una zona aliena, financo proibita: riteneva che il dramma tedesco non presentasse caratteri shakesperiani (senza sapere però quanto la presenza di Shakespeare fosse decisiva per quel teatro) ma ne ammirava la nobiltà delle idee. Lettura molto italiana questa che sarà poi di Croce: poesia didascalica, ma...

Il personaggio di Posa decise il significato dell'opera: parteggia per i fiamminghi, solo questo sappiamo di lui. Ma le idee politiche non hanno risvolti psicologici, quanto meno non di immediata evidenza. Anche il protagonista è un tarantolato politico ma sostenuto da ben altre fiamme: un'avversione per il padre che la premessa dell'atto soppresso non giustifica appieno, antecedente alla gelosia (e qui siamo al centro della drammaturgia verdiana) e a un indimenticabile coup de foudre per Elisabetta.

Ma il rapporto con Posa altera lo spessore del personaggio: emerge tra i due una amicizia conclamata di cui, vista l'intensità, fino al sacrificio della vita, non si comprende la ragione, ben intuibile invece nei versi del gran poeta tedesco. Non a caso Thomas Mann, proprio attraverso una lettura suggerita ma non compiuta del dramma, raffigura una tipica infatuazione adolescente di Tonio Kroeger per il riottoso amico Hans: Tonio no lo sa, ma la sua è una reazione omoerotica: la stessa che lega Carlos a Posa.

Verdi lo sa ancora meno, troppa pruderie in lui, e purtroppo non ha altro che la sostituisca. Così Posa e, di riflesso, Carlos, divengono due congiurati senza ragioni sufficienti. Era utile concludere il quadro del carcere con una sommossa, sempre gradita nella capitale delle rivoluzioni? Impossibile, fu la prima risposta: perché si sarebbe dovuto "lasciare Posa (morto), sdrajato per terra dopo aver cantato un'aria faticosissima".

Sapeva, il gran teatrante, che sono proprio le parti deboli, banali, a essere ricordate, a sforare (Cajkovskij ne era ben consapevole), laddove sfuggono le raffinatezze, anche melodiche: così le quarte discendenti, di immobilità ieratica in un momento in cui il re sembra deciso ad affidarsi al pericoloso consigliere. Pochi momenti come questi, perfetto, possono dimostrare come il ritratto a tutto tondo di Filippo - difficile non pensarlo in termini tizianeschi - sia ben altra cosa che l'insignificante idealismo del suddito pur leale: Verdi si dichiarava sempre a favore di ogni quarantotto, ma quando arriva ai pentagrammi le sue certezze hanno, nei confronti dei sogni di Posa, una verità schiacciante: il re sa benissimo che solo con la forza si possa domare un paese. Niente di più machiavellico (e hobbesiano) che gli autocrati: possono fare una brutta fine, sicuramente, ma le maniere di Posa servirebbero solo ad anticiparla.

È incredibile come l'intuizione musicale di Verdi intervenga prontamente ovunque egli è all'unisono con la radicale sicurezza di anime forti: tra queste la stessa Eboli, dominata dal demone verdiano e capace di una strategia amorosa che doppia seduzione, moina e minaccia: Verdi aveva gran ragione affermando che se il terzetto del secondo atto fosse stato cantato "sul ritmo", sarebbe riuscito irresistibile.

Così Carlos acquista il necessario rilievo appunto dove subisce quelle fiere nature: persino il contegno della regina che non è affatto disposta a cedergli, non ostante i soavi ricordi di un'ora lontana. L'Infante non soffre per lei, non sono le sue pene d'amore perdute, ma inerti conati d'azione d'un destinato alla sconfitta: diagrammi perfetti di una situazione isterica.

Personaggio e vicenda risultano, in Verdi, un caso limite. Infine, un passaggio, il Don Carlos, di melodramma, fra i più convincenti, purtroppo messo a duro confronto, come si diceva, con una temperie estranea e financo odiosa: la tradizione francese.

Le voci di questa edizione scaligera, a parte qualche incertezza di intonazione, qualche filato poco convincente e una non ben approfondita definizione dei caratteri psico-emotivi dei personaggi, sono le migliori che oggi si possano trovare. Una particolare menzione va a Michele Pertusi che ha presentato un convincente Filippo II e la sua “Ella giammai m’amò” ha, in alcuni momenti, sfiorato la commozione. Regia di Lluìs Pasqual pulita e di base in linea con l’estetica dell’opera. Molto belli i costumi realizzati dalla gloriosa Franca Squarciapino, le scene di Daniel Bianco in linea con la regia di Pasqual. Sempre all’altezza delle aspettative il coro perfettamente preparato da Alberto Malazzi. Riccardo Chailly dirige con esperienza e talento indiscutibili e propone un Don Carlo asciutto e analitico.

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Il controverso Don Carlo apre la stagione del Teatro Alla Scala

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12.12.2023

Bizet, il miracolato secondo Nietzsche, scrivendo a un allievo prediletto, avanzò dubbi non certo trascurabili: "Esco dal Don Carlo. È molto brutto. Sapete che io sono eclettico; adoro La Traviata e Rigoletto. Don Carlo è una specie di compromesso. Non melodia, non accento; tende allo stile, ma vi tende... soltanto. L'impressione è stata disastrosa. È un fiasco completo, assoluto".

Una reazione istintiva, questa, non un giudizio: la delusione era autentica. Al di là dei suoi asserti violenti, si hanno tuttavia proposte di riflessione interessanti le quali, attraverso i decenni, approdano a Fedele d'Amico: il gran critico notava che, accettando i canoni del grand-opéra, Verdi affrontava qualcosa che si trovava al giusto opposto della sua poetica.

Merito essenziale di quest'opera, la capacità, dimostrata a evidenza, di rovesciare i personaggi, dimostrarne pieghe di inaudita segretezza. Quando, dopo tre atti meno felici (due nella versione in quattro, la migliore secondo me), si arriva al quadro nella stanza di Re Filippo, una serie di numeri eccezionali si fanno largo, anche per chi ha scritto il fabuloso primo atto de La Traviata, la scena con Sparafucile del Rigoletto, i due primi atti del Ballo in Maschera, primo e secondo atto de La forza del destino, il prologo del Boccanegra, per tacere della incombente Aida, sollevando il dramma ad una altezza sgomentevole: il fiato quasi si blocca di fronte all'aria del monarca desolato o di fronte alla passacaglia feroce del duetto tra Filippo e l'Inquisitore; inoltre il cantabile della principessa d'Eboli, "o mia regina", pura apoteosi del legato.

Anche i primi due atti hanno momenti sensazionali, purtroppo smarriti in un contesto a essi estraneo: la convenzione francese, appunto. Certo, a nessun compositore parigino sarebbe venuto in mente di optare, nel duetto fra il re e il marchese di Posa, per due tonalità diverse; né di valersi degli antichi modi con la finezza ben oltre la pedagogia Niedermeyer; né la libertà metrica che si afferma con tanto vigore, sapendo che Verdi se ne sarebbe voluto liberare del tutto: "Io credo... che per l'opera in musica moderna, bisognerebbe adottare il verso senza rima...

Più, le mot, che colpisce, e scolpisce, vien tal volta annegato in una frase causa sempre il verso e la rima". (Wagner annidandosi pian piano nel pensiero di Verdi: i due si riconosceranno più tardi!). Tuttavia, lo schema fondamentale dell'opera, che tante fatiche gli impose, tocca territori non appartenenti alla provincia verdiana.

Pessimo la "voce dal Cielo" che accoglie, come veri martiri, gli eretici immolati nell'autodafé; peggiore ancora la figura del frate che è e non è l'imperatore Carlo V e, se tale, sospeso fra morte e non si sa qual sopravvivenza: perché accettare soluzione così assurda e non la chiusa dell'originale schilleriano?

Secondo Julian Budden, il Don Carlo non è né di Verdi né di Schiller, ma "è un mito e in quanto tale può essere forzato fino a includere un monaco fantasma o una voce proveniente dal cielo". Budden vuole persuaderci di una tesi ovvia: la convenzionalità del teatro. Ma qualunque soluzione fantastica non può trovar tutte le sedi e in qualsivoglia stile. Una voce celeste può trovar degna sede in Tasso ma non certo in Ariosto.

Nel caso in questione, quelle situazioni sono estranee, incongrue, toccano zone dell'Essere che il contesto, realista come in tutto Verdi, assolutamente rifiuta. E qui si arriva al cuore della concezione: Verdi è un novellatore prodigioso, un inventore di romanzi cavallereschi, un formidabile puparo e sa benissimo che le vicende umane dipendono da divinità cieca. Stranamente, anche per lui si tratta del Caso, celebrato già in quegli anni dal nascente Simbolismo: le hasard appunto.

Davanti a questo motore occulto e inspiegabile, vi è la rappresentazione obiettiva ove l'invenzione si misura con la realtà e magari la soverchia oppure, all'opposto, con la partecipazione sentimentale, ovvero la pietà. Compito del compositore è la rappresentazione del singolo personaggio: le sue gioie, o le sue lacrime, devono essere quelle della musica, che mira solo a se stessa: le lacrime delle cose sono deboli elegie.

Adorno sosteneva da sempre come la musica, nella vicenda tragica, sia tutta dalla parte opposta al destino. Destino o carattere, come Benjamin ha spiegato per sempre: chi volesse sapere quali siano i caratteri ammissibili nel melodramma classico, in Verdi in primo luogo, non avrebbe che da leggere il bel libro di Gilles de Van, che li elenca tutti; o il saggio di Luigi Baldacci - letture obbliganti per chi di musica vuole sapere. Vi si noterà come la morfologia dei personaggi sia assai vasta e mutevole: ma non infinita. Se come padre Rigoletto è assai fastidioso, certo Fedor P. Karamazov non avrebbe potuto essere accolto fra quegli eroi, e forse nemmeno Re Lear, come i fatti........

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