La morte della morte. Il caso delle gemelle Kessler
Tripudio per la morte. Tripudio per il suicidio di due anziane signore, immerse nella tristezza e nella solitudine. Commemorazioni festose, epicedi assertivi: “Onoreremo la loro memoria approvando una legge….”.
Un tempo il tripudio era riservato solo alla morte dei tiranni. La morte comune, quella che colpisce i nostri cari oppure gli estranei, generava a seconda della vicinanza o della distanza affettiva tristezza, dolore, talvolta disperazione; oppure pena, rammarico, riguardo. Un suicidio normalmente generava pena. E senso di colpa: si poteva fare qualcosa, lenire tanta solitudine, manifestare quella preferenza, quel guardare e chiamare per nome che tante volte rinnova motivazioni di vita in un depresso. Alla morte di un estraneo era dovuto come minimo ossequio, reverenza: ci si toglieva il cappello dalla testa, si inclinava la testa verso il basso, le mani composte. Nessuna pena per il dittatore, invece, nessuna pietà: la sua morte è vissuta come una liberazione, il suo corpo è esposto alla feroce esaltazione della folla, come nel caso di Mussolini e compagni; la notizia suscita danze e battimani, come quelle degli sciiti iracheni dopo l’impiccagione di Saddam Hussein. Si rinnova nel compiacimento della propria crudeltà «il grande godimento festoso dell’umanità antica», come scrive Nietzsche nella Genealogia della morale.
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