Lavorare. Sulla carta, dizionario alla mano, si traduce in operare impiegando le risorse fisiche o mentali, nell’ esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte. Ma il discorso è più vischioso ed oscuro. Penso, ad esempio, al lavoro nero, quasi che questo impegno potesse sì esercitarsi ma nascostamente, senza darlo a sapere, in una logica quasi carbonara. Da non confondere col lavoro grigio, parzialmente irregolare nei confronti del fisco, un modo per sopravvivere senza alcun timbro di garanzia sul futuro. Oppure, il capitolo del lavoro part time. Esprimiti, ma solo per poche ore, come se il cervello potesse chiudersi con una semplice valvola. E poi, il lavoro flessibile. Impara un mestiere ma non ti approfondire troppo, tanto presto dovrai voltar pagina e cambiare tutto lo spartito. O, ancora, il lavoro minorile. Nel passato, per molti versi, condensato nell’apprendistato di un’attività meramente artigianale. Oggi, accostato allo sfruttamento sistematico dei più piccoli, magari dei più poveri. Per concludere, poi, con il lavoro ripartito, parola magica che fraziona in due un posto di lavoro, impegnando magari un padre e un figlio, per non logorare troppo il primo, per illudere il secondo che un futuro, nonostante tutto, resta possibile. E con il lavoro discontinuo. Quindici giorni lavori e per tre mesi ti fermi, come se potessimo mandare in letargo il nostro stomaco. E poi, gli eterni dualismi. Il lavoro fisico e quello intellettuale. Il mondo dei garantiti e quello dei marginali. Il lavoro da scrivania e il telelavoro. La disfida infinita tra lavoratore e lavorante, un sottile gioco di parole dietro il quale si cela una frontiera profonda. Lavorare, per molti versi, indica uno spazio di creatività, sicuramente canalizzato, ben delimitato ma vivace, sulfureo, costante. Dire che, in questi anni, il peso della recessione, le spire della crisi economica, la disaffezione verso qualsiasi realtà etica, culturale, politica hanno prodotto un effetto devastante appare troppo facile. Il lavoro si è trasformato, quindi, progressivamente, in uno spazio di confino, in alcuni casi di segregazione. Milioni di persone, quotidianamente, si sentono sequestrati in un palazzo, controllati e vivisezionati da un badge in entrata e in uscita, prosciugati psicologicamente da lunghe ore di scrivania, con ostacoli e limitazioni costanti. Il telefono fisso che non può connettersi coi cellulari, la stampante solo esterna, in modo da limitare ogni tentazione privata, il computer soggetto a limitazioni sempre più repressive. E la ricerca esasperata della propria stanza, uno spazio spesso piccolo, angusto, autonomo, dove campeggiano spesso i manifesti dei propri sogni, nel quale evitare ogni forma di dialogo e chiudersi individualmente nel proprio modesto quotidiano, nel proprio leggero dolore. Sarà l’evoluzione del pensiero moderno, ma si parla sempre di meno e si scrive sempre di più. Lo sappiamo tutti, una volta il confronto delle idee era la piazza. Il luogo delle assemblee politiche e sociali, i conciliaboli quotidiani dei bar, gli spazi per un appuntamento o un incontro. Adesso, come in un rivoluzionario far west mediatico, ognuno apre il suo computer ed infila automaticamente ogni giorno, nel suo fodero, una colt di nuova generazione. Nello schermo che ha davanti ha i mezzi per colpire chiunque. O attraverso il sofisticato meccanismo degli hacker, oppure tramite i social network, magari complice un e-mail, o un semplice sms. Qualunque sia la scelta, la parola resta scritta, testimonianza più o meno indelebile spesso di un dissenso, raramente di un assenso, perché la società nella quale siamo calati urla, dialoga poco, privilegia la contestazione al confronto. Esprimendo un’ulteriore contraddizione. Mentre il numero di chi sa scrivere una lettera, soprattutto tra i giovani, si riduce ulteriormente, è la parola scritta che impera, soprattutto nelle giovani generazioni. Attraverso il labirinto di un lessico anche nuovo, fatto di crasi e di abbandono delle vocali, alla ricerca di una sintesi sempre più acuta e totale che, prima o poi, porterà, inevitabilmente, all’estinzione della parola. Una lingua davvero nuova che ci riporterà a quel silenzio già agognato da molti, alla solitudine del proprio piccolo, claustrale ufficio, alla funzione assente di spettatori di un mondo che scorre drammaticamente davanti ai nostri occhi e al quale regaliamo l’onore del silenzio.

QOSHE - L’evoluzione del lavoro che non nobilita l’uomo - Giuseppe Scalera
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L’evoluzione del lavoro che non nobilita l’uomo

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14.11.2023

Lavorare. Sulla carta, dizionario alla mano, si traduce in operare impiegando le risorse fisiche o mentali, nell’ esercizio di un mestiere, di una professione, di un’arte. Ma il discorso è più vischioso ed oscuro. Penso, ad esempio, al lavoro nero, quasi che questo impegno potesse sì esercitarsi ma nascostamente, senza darlo a sapere, in una logica quasi carbonara. Da non confondere col lavoro grigio, parzialmente irregolare nei confronti del fisco, un modo per sopravvivere senza alcun timbro di garanzia sul futuro. Oppure, il capitolo del lavoro part time. Esprimiti, ma solo per poche ore, come se il cervello potesse chiudersi con una semplice valvola. E poi, il lavoro flessibile. Impara un mestiere ma non ti approfondire troppo, tanto presto dovrai voltar pagina e cambiare tutto lo spartito. O, ancora, il lavoro minorile. Nel passato, per molti versi, condensato nell’apprendistato di un’attività meramente artigianale. Oggi, accostato allo sfruttamento sistematico dei più piccoli, magari dei più poveri. Per concludere, poi, con il lavoro ripartito, parola magica che fraziona in due........

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