Ricordo ancora il proprietario del bar in cui lavoravo quando ero una studentessa universitaria. “Vediamo se le gambe vanno bene”, mi aveva detto durante il colloquio di lavoro, mentre mi apriva il cappotto per controllare che le mie gambe fossero dritte. Ricordo le mani sul culo e i commenti dei clienti del bar, che sembravano avere come unico hobby giocare al gatto e al topo con le cameriere.

Ricordo il locale sulla spiaggia in cui lavoravo durante le estati. Io e l’altra barista stavamo al banco per dodici ore al giorno, dalle 8 alle 20, ma il problema principale non erano le gambe stanche la sera bensì sfuggire alle imboscate dei proprietari, nella cui testa le dipendenti erano prede che mandavano avanti il locale durante i turni e da cui estrarre un qualche intrattenimento nelle pause.

E potrei continuare con il proprietario sessantenne del ristorante in cui lavoravo a pranzo. Quando la moglie non c’era, si avvicinava alla mia faccia stringendo la bocca a cuoricino come un chihuahua, e mentre il locale si svuotava il suo avvicinamento felpato provocava in me un terrore simile all’idea ripugnante di ricevere delle avance da mio nonno.

Ogni datore di lavoro è molesto a modo suo, potremmo dire, salvo preziose rare eccezioni, ma troppe di noi hanno dovuto imparare fin da piccole ad abitare lo spazio pubblico come fosse uno spazio maschile, in cui la sopravvivenza è legata alla capacità di agire con arguzia, facendo finta di stare al gioco giusto quel tanto che basta per non starci.

Per molti versi, è in questo modo che le donne si sono mosse nel mondo per anni: creando forme di sottrazione negli interstizi, per lanciare da quelli una controffensiva in grado di sabotare tutto. Lo racconta bene il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, dove le astuzie delle protagoniste rimangono invisibili fino a quando diventano travolgenti, e allora fanno saltare matrimoni e pianificano fughe, e sfociano in una partecipazione attiva alla vita politica e nel diritto di voto.

Fa impressione ripercorrere i cambiamenti vertiginosi degli ultimi cinquant’anni, quando le lotte femministe sono riuscite a ottenere l’abrogazione del reato di adulterio (1968), la legge sul divorzio (1970), il nuovo diritto di famiglia (1975), l’aborto (1978) e l’abrogazione del delitto d’onore (1981), per fare alcuni esempi. Era un mondo diverso, allora.

Comizi d’amore, il documentario di Pasolini del 1965 spesso citato a questo proposito, testimonia come molti in quegli anni credessero ancora, in modo preponderante, che fosse giusto che la donna avesse meno diritti degli uomini, che fosse giusto che lei stesse al suo posto, che fosse giusto che l’uomo decidesse per lei. Un intervistato ammette, addirittura, con innocenza, che uccidere una donna, in caso di tradimento, è meglio che divorziare perché il divorzio non redime l’onore maschile, ma il femminicidio sì. Per dirla con le sue parole, “facendo il divorzio io resterei sempre un cornuto, quindi è meglio [ucciderla]”.

Forse qui dovremmo tornare per capire quanto sta accadendo, perché lo sgomento con cui il paese ha seguito il brutale femminicidio di Giulia Cecchettin è difficile da comprendere se non capiamo quali sono state per lungo tempo le coordinate morali d’Italia.

Nelle scorse settimane l’intero paese ha seguito con apprensione e dolore l’omicidio di Giulia. Per una volta, la vittima non era lui. Non so quali siano state le cause, se la forza emotiva della famiglia Cecchettin, il viso sorridente di Giulia o l’appassionata lucidità della sorella Elena. Fatto sta che, per una volta, nel dibattito pubblico era chiaro chi fosse il carnefice e chi la vittima. Per troppo tempo, le coordinate morali d’Italia sono state altre.

Fino a 42 anni fa l’omicidio delle donne era un reato quasi legittimo, comprensibile e sanzionato con pene attenuate, perché il suo fine era salvaguardare l’uomo offeso dalla condotta disonorevole di lei. “La riparazione dell’onore era in qualche misura era tollerata”, osserva la criminologa Anna Costanza Baldry, perché consentiva all’uomo offeso di difendere “l’onor suo o della famiglia”.

I criteri morali con cui storicamente abbiamo guardato al femminicidio, in questo senso, sono stati a lungo capovolti, tanto da considerare la donna morta come colpevole e l’omicida come la vittima. I titoli dei giornali che, ancora oggi, descrivono il femminicidio come un delitto “passionale”, derivano da qui. Questa volta, tuttavia, il paese non ha empatizzato con lui. Chi se ne frega se l’omicida voleva o meno accettare che Giulia potesse avere una vita autonoma e chi se ne frega se non voleva che si laureasse prima di lui. Giulia doveva essere libera. Giulia inseguiva il profumo della libertà, la stessa che non doveva esserle mai sottratta.

Il femminicidio non è l’esito di un amore non corrisposto. È il sintomo di un sistema di dominio maschile il cui fine è mantenere le donne in una condizione di soggezione. In questo senso, il problema non è l’amore. Il femminicidio non nasce quando Leopardi soffre d’amore per Silvia. Il problema è il potere. La nostalgia di un’epoca in cui l’uomo poteva avere la proprietà di lei e deciderne il destino o anche la morte, se quello era l’unico modo di controllarla. Il patriarcato non è tramontato con l’epoca della pastorizia, come è stato scritto. È vivo ed è pieno di crepe. Il femminismo, dal canto suo, non siede più negli interstizi. È ovunque.

Oggi i sindacati faticano a portare le persone nelle piazze. I partiti non ci riescono. Ci sono riuscite, invece, le attiviste di Non una di meno a partire da un’idea di libertà. A partire dal desiderio condiviso di decidere in modo autonomo come vestirsi e cosa studiare, dalla volontà di lavorare senza essere molestate, di essere più brave dei loro superiori senza subirne il risentimento o le vendette. Di prendere un treno la notte senza per forza avere paura, di prendere la parola senza essere derise, di leggere un giornale senza trovarci solo maschi.

“Siamo stanche di restare in silenzio”, dicevano i cartelli in piazza il 25 novembre. “Vogliamo essere libere”. Per questo, d’ora in poi, “abbasseremo la testa solo per ammirare le nostre scarpe”.

QOSHE - Il profumo della libertà - Francesca Coin
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Il profumo della libertà

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26.11.2023

Ricordo ancora il proprietario del bar in cui lavoravo quando ero una studentessa universitaria. “Vediamo se le gambe vanno bene”, mi aveva detto durante il colloquio di lavoro, mentre mi apriva il cappotto per controllare che le mie gambe fossero dritte. Ricordo le mani sul culo e i commenti dei clienti del bar, che sembravano avere come unico hobby giocare al gatto e al topo con le cameriere.

Ricordo il locale sulla spiaggia in cui lavoravo durante le estati. Io e l’altra barista stavamo al banco per dodici ore al giorno, dalle 8 alle 20, ma il problema principale non erano le gambe stanche la sera bensì sfuggire alle imboscate dei proprietari, nella cui testa le dipendenti erano prede che mandavano avanti il locale durante i turni e da cui estrarre un qualche intrattenimento nelle pause.

E potrei continuare con il proprietario sessantenne del ristorante in cui lavoravo a pranzo. Quando la moglie non c’era, si avvicinava alla mia faccia stringendo la bocca a cuoricino come un chihuahua, e mentre il locale si svuotava il suo avvicinamento felpato provocava in me un terrore simile all’idea ripugnante di ricevere delle avance da mio nonno.

Ogni datore di lavoro è molesto a modo suo, potremmo dire, salvo preziose rare eccezioni, ma troppe di noi hanno dovuto imparare fin da piccole ad abitare lo spazio pubblico come fosse uno spazio maschile, in cui la sopravvivenza è legata alla capacità di agire con arguzia, facendo finta di stare al gioco giusto quel tanto che basta per non starci.

Per molti versi, è in questo modo che le donne si........

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