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La promessa di Luca Parmitano: "Tornare sulla superficie lunare entro il 2030"

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24.12.2025

(di Gaia Ravazzolo, Ricercatrice junior nel programma “Difesa, sicurezza e spazio” dell’Istituto Affari Internazionali)

Nel primo semestre del 2025 abbiamo assistito a un’accelerazione nel lancio di satelliti nella nuova corsa verso la Luna. Il programma Artemis presenta un’architettura molto più complessa di quella dell’Apollo, prevede infatti una stazione orbitante, allunaggi nell’area polare, che è molto più impegnativa rispetto agli atterraggi sull’ala equatoriale ed esplorazioni di lunga durata, anche più sostenibili. Alla luce di questa ambizione crescente, quando possiamo realisticamente aspettarci un nuovo allunaggio?

È una domanda estremamente complessa. Una volta si diceva “una domanda da 1 milione di dollari”. Questa è una domanda da 1 miliardo di dollari per vari motivi. Innanzitutto perché dovete considerare che proprio per la complessità dell’architettura del programma Artemis, che prevede come obiettivo finale l’esplorazione di lunga durata sulla superficie, è in maniera sostenibile, è sostenuta.

Cosa vuol dire questo? Che anziché partire da piccoli progetti e poi andare a variare in maniera sostanziale i mezzi e la tecnologia, si è deciso di partire già con programmi molto complessi. Ad esempio le astronavi che dovranno andare sulla superficie lunare, i lander, i mezzi che ci permetteranno di andare nella parte polare della Luna, come la stazione orbitante Gateway, sono programmi estremamente ambiziosi che hanno bisogno di tempo.

Questo significa che i primi passi saranno molto difficili, ma poi ci permetteranno di correre molto più velocemente e di andare molto più lontano. Ecco perché abbiamo notato dei ritardi all’inizio, in particolare con la missione Artemis 1, che ha traslato verso destra il lancio della missione Artemis 2 che si accinge a partire l’anno prossimo.

Da lì cosa mi aspetto? Credo che proprio nei prossimi mesi, o entro il 2026, vedremo i primi test di un possibile Lunar Lander, quindi l’evoluzione di quello che negli anni Sessanta-Settanta era il LEM, l’evoluzione di 60 anni dopo di un mezzo che permetta all’umanità di tornare sulla superficie.

E perché è così difficile farlo oggi quando era stato fatto negli anni Sessanta? Perché oggi è cambiato il mondo: è cambiata la percezione e l’accettazione del rischio. Quello che era possibile fare durante la Guerra Fredda, oggi non sarebbe accettabile dalla società, dalla popolazione né dalle agenzie spaziali stesse. Un fallimento o l’eventuale perdita di equipaggio comporterebbe fondamentalmente la chiusura, alla fine, di un programma. Ecco perché i primi passi devono necessariamente essere estremamente cauti, proprio perché ci aspettiamo che i nuovi sistemi siano molto più sostenibili e per questo la loro complessità è aumentata esponenzialmente.

La promessa è quella di tornare sulla superficie lunare entro il 2030, ma nel frattempo non stiamo con le mani in mano: l’anno prossimo partirà la missione Artemis 2 con il primo equipaggio ad andare oltre l’orbita bassa terrestre per la prima volta in 60 anni. Dopodiché sarà il momento di iniziare la costruzione del gateway: una stazione spaziale orbitante che ha delle innovazioni uniche e che quindi comportano delle complessità, in primis il fatto che sarà su un’orbita perpendicolare a quella di rotazione del sistema Terra-Luna. È un’orbita più instabile di quella equatoriale e quindi, anche da un punto di vista energetico, più difficile da gestire.

Tutto questo mi spinge a essere cauto anche nella mia previsione: non ho la sfera magica per prevedere il futuro, ma la nostra posizione come tecnici che lavorano nel campo dell’esplorazione spaziale è quella che è possibile entro la fine della decade tornare sulla superficie lunare.

E quale ruolo potrà avere l’Europa nello sviluppo della futura presenza umana nel nostro satellite naturale?

Mi sembra che sia già evidente dai primi passi dell’esplorazione lunare. Già dalla missione Artemis 1, la presenza europea è stata fondamentale perché l’astronave Orion – che è il mezzo di trasporto, almeno per le prossime missioni, per l’equipaggio – è solo in parte americana, ma è in buona parte europea. La parte forse più visibile, quella che trasporta l’equipaggio, è costruita dalla NASA, ma il modulo di servizio – che ha un nome forse non altrettanto sexy come Command Module, ma che ha una rilevanza estrema perché contiene sia i moduli di navigazione, i motori, il sistema di supporto alla vita e i sistemi di comunicazione – è stato costruito a livello europeo ed è una parte indispensabile del complesso. Quindi, già il contributo europeo della prima missione è fondamentale. Direi che siamo i copiloti per quanto riguarda il trasporto umano verso la Luna e dalla Luna.

Che poi questo contributo si consolida e si rafforza nella costruzione del Gateway, la stazione spaziale: i primi due principali moduli sono entrambi costruiti in Europa, in particolare in Italia, dove abbiamo una delle industrie di costruzioni aerospaziali più importanti al mondo, che ha già costruito più del 50% del volume pressurizzato nella stazione spaziale internazionale. Questi moduli, di cui uno è già stato consegnato agli Stati Uniti per l’allestimento in loco, mentre il secondo iHub – ovvero il modulo abitativo internazionale, che è il primo........

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