Sulla scrittura del napoletano non c’è mai stata né ci sarà completa concordia, anche perché non solo il suo lessico ma l’inflessione muta secondo tempi e luoghi

Sappiamo tutti che le lingue non sono come pietre. Chi passava davanti a Palazzo Reale, quando ci abitava Ferdinando II, non parlava lo stesso idioma di chi ci passò quando divenne dimora dei piemontesi principi di Napoli, né di chi si affacciò su quella piazza nel secondo dopoguerra né di chi ci cammina adesso. Il Palazzo è sempre quello ma l’idioma di chi lo guarda cambia, specialmente perché è più parlato che scritto. Come il napoletano.

Hai voglia a dire: c’è una tradizione letteraria, ma non so quanti leggano correntemente Giulio Cesare Cortese o Sgruttendio, e Di Giacomo è molto più ascoltato dalle canzoni che appreso dalle pagine. Per di più, malgrado le grammatiche e la dedizione di eccellenti studiosi, sulla scrittura del napoletano non c’è mai stata né ci sarà completa concordia, anche perché non solo il suo lessico ma l’inflessione muta secondo tempi e luoghi. (Pensate ai fonemi di un Murolo padre e a quelli di un Di Lauro di Scampia).

Chi contrappone un autore all’altro spende già troppa faticaBasta paragonare un autore a se stesso per acclarare facilmente che si è smentito, o si è evoluto, da un ventennio all’altro. Fra il Di Giacomo di “Era de maggio” e quello di “Palomma ’e notte”, per citare due vette del repertorio altrettanto celebri, lu ciardino diventa ’o ciardino, e non è solo questione di articolo determinativo ma di metrica, di umore e rappresentazione. È lo scalino tra l’Otto e il Novecento. Per non parlare della dimensione più privata che artistica.

Nemmeno gli insigni campioni dell’idioma conversavano in casa con la lingua adoperata a teatro, e identificarli con i loro personaggi sarebbe deludente (si veda, accenniamo in parentesi, il ritratto di Raffaele Viviani lasciato da Guglielmo Peirce). Il napoletano si evolve rapidamente. Già  Giovanni Artieri più di un secolo fa sentendo la nonna, nata nel 1840, realizzava che l’idioma dei tempi di re Ferdinando II «era del tutto diverso da quello che adoperava donna Matilde Serao con le principesse della Riviera di Chiaia».Â

C’erano stati di mezzo le schioppettate del ’48, il plebiscito del ’60, la caduta di Franceschiello. Noi mettiamoci, proseguendo, la Prima guerra mondiale (che Adriano Tilgher definì un «diluvio universale»), il fascismo, la Seconda guerra, gli americani, la radio, la televisione e ancora: internet, i social più le contaminazioni di ogni tipo. Sarebbe inutile perciò vestire i panni del grammatico Manfurio, il pedante del “Candelaio” di Giordano Bruno (che peraltro, secondo Ferdinando Russo, fu scritto o almeno pensato in napoletano). Sarebbe superfluo ripetere certi diffusi esempi come l’ascesa del verbo “pariare”, che in origine aveva tutt’altro significato (digerire), e avrebbe relativo valore datare l’estinzione o l’esordio di alcuni vocaboli (tipo cazzimma, che ha fatto fortuna nel resto d’Italia quasi come a suo tempo il termine scugnizzo).
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Eppure, un senso di legittimo fastidio ha contratto gli stomaci dei più leggendo la pubblicità per la prossima apertura della Mondadori in Galleria Umberto. Per «la libreria più grande d’Italia», come viene propagandata, ci saremmo aspettati meno sciatteria nella stesura dello slogan: «… Pecchè Napule è comm a cupertin i nu’ libro, vir subit chell che ce’ sta a for ma no a bellezz che ce’st’arind…». No comment è la massima indulgenza che si può concedere a questa fetenzìa (che con altrettanta indulgenza chiamiamo solo così). Però pure noi, visto che questa è un’epoca di colpe collettive, in cui anche chi è innocente è chiamato ad accollarsi orrori altrui, pure noi cosa abbiamo detto o fatto prima, e perché non abbiamo alzato la manina, quando in una deriva dozzinale o similpop, incolti rapper e tiktoker o giornaliste e giornalisti laureati hanno scritto – e continuano a scrivere – “mammt” e “uagliù”, “tiemp” e “chist”. O l’orrendo “coccos”. Solo all’arrivo dei “milanesi” ci risvegliamo d’improvviso come i Manfurio della Presunta Crusca Partenopea. Forse la coerenza è come la lingua, forse cambia che nemmeno te n’accorgi. Mentre Palazzo Reale “è sempre là ”, come Via della Scala in quella vecchia canzone di Stefano Rosso.
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22 novembre 2023 ( modifica il 22 novembre 2023 | 22:26)

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QOSHE - La Mondadori sbaglia il napoletano: una vera fetenzia, ma indignazione incoerente - Francesco Palmieri
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La Mondadori sbaglia il napoletano: una vera fetenzia, ma indignazione incoerente

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23.11.2023

Sulla scrittura del napoletano non c’è mai stata né ci sarà completa concordia, anche perché non solo il suo lessico ma l’inflessione muta secondo tempi e luoghi

Sappiamo tutti che le lingue non sono come pietre. Chi passava davanti a Palazzo Reale, quando ci abitava Ferdinando II, non parlava lo stesso idioma di chi ci passò quando divenne dimora dei piemontesi principi di Napoli, né di chi si affacciò su quella piazza nel secondo dopoguerra né di chi ci cammina adesso. Il Palazzo è sempre quello ma l’idioma di chi lo guarda cambia, specialmente perché è più parlato che scritto. Come il napoletano.

Hai voglia a dire: c’è una tradizione letteraria, ma non so quanti leggano correntemente Giulio Cesare Cortese o Sgruttendio, e Di Giacomo è molto più ascoltato dalle canzoni che appreso dalle pagine. Per di più, malgrado le grammatiche e la dedizione di eccellenti studiosi, sulla scrittura del napoletano non c’è mai stata né ci sarà completa concordia, anche perché non solo il suo lessico ma l’inflessione muta secondo tempi e luoghi. (Pensate ai fonemi di un Murolo padre e a quelli di un Di Lauro di Scampia).

Chi contrappone un autore all’altro spende già troppa faticaBasta paragonare un autore a se stesso per........

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