Qualcosa non torna nei numeri che in queste ultime settimane dell’anno raccontano lo stato di salute economico-finanziaria degli italiani. Prendiamo solo le cifre emerse in tre ricerche pubblicate tra ieri e l’altroieri. Tre studi autorevoli, prodotti da centri di ricerca seri e indipendenti. Il primo è il rapporto dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche: ci ha ricordato, giovedì, che in Italia i salari reali – cioè quelli al netto dell’inflazione – sono sostanzialmente fermi da trent’anni. Tra il 1991 e il 2002 hanno accumulato una “crescita” (tra virgolette, perché pare eccessivo definirla tale) dell’1%. Cioè quasi nulla rispetto al +32,5% dei salari medi nell’area dell’Ocse, che mette assieme le “economie sviluppate”, o più semplicemente i Paesi ricchi e democratici. Andiamo male, dunque: di questo passo è lecito dubitare che l’Italia riuscirà a mantenere ancora a lungo lo status di “nazione ricca”. Rischiamo di scivolare verso il basso, in una sorta di serie B dell’economia globale, un po’ come sta avvenendo con la nostra nazionale di calcio.

Le crepe nella tenuta del sistema sanitario che si allargano vistosamente rafforzano questa visione pessimistica.
Agli italiani però non sta andando così male, ci dicono le altre due ricerche di cui su Avvenire diamo conto oggi. Una è quella sul risparmio condotta da Doxa per Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi: ne emerge che la quota di italiani in grado di risparmiare è tornata a livelli molto alti (il 54,7% della popolazione, il terzo dato migliore negli ultimi vent’anni) e come percentuale di reddito risparmiato siamo tornati al 12,6% del 2006, il livello più alto di questo millennio.

Gli italiani sanno mettere soldi da parte, dunque, nonostante abbiano subìto tra il 2022 e il 2023 un’ondata di inflazione spaventosa, la peggiore da oltre quarant’anni. Risparmiano, ma allo stesso tempo spendono, ci dice la terza indagine, quella di Findomestic, tra i principali operatori del credito al consumo: gli acquisti di beni durevoli, cioè case, arredamento, tecnologia ma soprattutto automobili, corrono, sono aumentati in valore del 9,4% fino a superare per la prima volta i 75 miliardi di euro. Questo strano fenomeno era visibile anche passeggiando per le strade d’Italia: tutti si lamentano dei prezzi delle auto nuove – ed effettivamente sembrano andati fuori controllo – eppure di macchine appena uscite dalla fabbrica ne girano parecchie. Le immatricolazioni quest’anno sono aumentate di oltre il 20%. Ecco che cosa non torna. Quelli che chiamiamo i dati “macro”, a partire dal Pil e dall’inflazione, disegnano un Paese che si sta impoverendo a una velocità impressionante, incapace di rialzarsi davvero dopo i ripetuti ko che gli ha inflitto l’economia mondiale negli ultimi vent’anni.

La realtà quotidiana però, e sono numerose le analisi lo confermano, è quella di un Paese popolato da persone ricche, o almeno benestanti. Il vecchio ritornello del “dicono che c’è crisi, ma i ristoranti sono tutti pieni” funziona ancora bene, nel suo essenziale massimalismo. Ma funziona altrettanto bene anche un altro luogo comune, quello che vede l’Italia come “un Paese povero abitato da gente ricca”. Lo sapevamo già, ricordarcelo però può aiutare a farsi un’idea di dove ci troviamo e che fase stiamo attraversando: se i numeri delle analisi stridono, pur essendo tutti validi e credibili, è perché è la realtà a farsi sempre più dissonante. C’è una parte della popolazione che ha retto l’urto delle crisi ed è riuscita a mantenere il suo tenore di vita, nonostante tutto. Nei casi più fortunati quest’Italia regge perché ha redditi da lavoro o rendite di vario tipo sufficienti a mettersi al riparo dal declino. C’è poi chi si tiene a galla spendendo oggi, più o meno gradualmente, i risparmi accumulati in passato.

Più sotto c’è l’altra Italia, quella che si affanna sempre più faticosamente per potersi permettere quella vita quantomeno “normale” a cui pensava di potere serenamente ambire un paio di decenni fa. E c’è infine chi non ce la fa proprio, 5,6 milioni di persone classificate come “povere” dall’Istat, incapaci di provvedere ai propri bisogni essenziali, figuriamoci a contribuire alla ripartenza dei consumi. Sono “italie” divergenti, fanno sempre più fatica a convivere e a capirsi. Resta questa la minaccia peggiore. L’entusiasmo compiacente per ogni dato economico positivo o le accuse del gioco della politica per tutto quello che non funziona non riescono a nasconderla.

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Le Italie divergenti Stipendi, consumi, risparmi: i conti non tornano

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16.12.2023

Qualcosa non torna nei numeri che in queste ultime settimane dell’anno raccontano lo stato di salute economico-finanziaria degli italiani. Prendiamo solo le cifre emerse in tre ricerche pubblicate tra ieri e l’altroieri. Tre studi autorevoli, prodotti da centri di ricerca seri e indipendenti. Il primo è il rapporto dell’Inapp, l’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche: ci ha ricordato, giovedì, che in Italia i salari reali – cioè quelli al netto dell’inflazione – sono sostanzialmente fermi da trent’anni. Tra il 1991 e il 2002 hanno accumulato una “crescita” (tra virgolette, perché pare eccessivo definirla tale) dell’1%. Cioè quasi nulla rispetto al 32,5% dei salari medi nell’area dell’Ocse, che mette assieme le “economie sviluppate”, o più semplicemente i Paesi ricchi e democratici. Andiamo male, dunque: di questo passo è lecito dubitare che l’Italia riuscirà a mantenere ancora a lungo lo status di “nazione ricca”. Rischiamo di scivolare verso il basso, in una sorta di serie B dell’economia globale, un po’ come sta avvenendo con la nostra nazionale di calcio.

Le crepe nella tenuta del sistema........

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