Un uomo cammina in una via di Port-au-Prince dopo il mercato - Reuters

È l’isola che non c’è. Nel dibattito pubblico e mediatico Haiti non esiste. Come molti altri pezzi di pianeta, si potrebbe aggiungere. La “prima Repubblica nera” della storia, fondata da ex schiavi cruentemente ribelli, però, non è, solo un cono d’ombra in più nel mappamondo. È un archetipo per comprendere i meccanismi di invisibilità e invisibilizzazione della politica internazionale. E le ragioni che li sottendono.

Haiti è una ferita che brucia sulla pelle dell’Occidente poiché lo inchioda di fronte alle proprie responsabilità. Non solo quelle storiche: l’indennizzo esorbitante di 150 milioni di franchi in oro, dieci volte il Pil del Paese, preteso dalla Francia nel 1825 per riconoscere l’indipendenza dell’ex colonia e rompere il suo isolamento internazionale. Quasi duecento anni dopo, all’indomani di una delle catastrofi naturali più letali degli ultimi secoli – il terremoto del 12 gennaio 2010 con 316mila morti in una manciata di giorni –, la comunità mondiale ha promesso di “ricostruire meglio” Haiti. “We build back better”, per impiegare le parole di Bill Clinton, commissario speciale dell’ente per riedificazione, gestito da Onu, principali Stati donatori e autorità locali. A distanza di 14 anni, camminando per Port-au-Prince – almeno il pochissimo possibile –, è impossibile non domandarsi che fine abbiano fatto i 6,4 miliardi stanziati per la rinascita di un Paese esteso appena un terzo della superficie di Hispaniola. “Ingoiati dalla corruzione endemica delle precarie istituzioni nazionali”, si è tentati di rispondere, cogliendo senza dubbio una parte di verità. Allargare lo sguardo – e il pensiero –, però, obbliga a chiedersi come mai nessuna delle istanze sovranazionali preposte abbia controllato. E a chi sia convenuto chiudere gli occhi. Di certo alle aziende delle imprese donatrici che si sono aggiudicate il 97% degli appalti. Soldi con i quali sono stati realizzati progetti quantomeno bizzarri. Lussuosi hotel per rilanciare un turismo impossibile senza le infrastrutture di base e un minimo di sicurezza. Memoriali inconclusi. Fabbriche incapaci di creare impieghi. Giardini perennemente deserti per la minaccia delle gang che, nella progressiva e sistematica implosione dello Stato, si sono appropriate della capitale e del resto del Paese.

L’escalation è iniziata dal 2018, un anno dopo il ritiro del contingente delle Nazioni Unite, dispiegato tra il 2004 e il 2017. Tredici anni in cui, certo, la violenza è calata. In compenso, ai caschi blu sono stati imputati vari abusi, nonché la responsabilità dell’epidemia di colera successiva al terremoto. La stabilizzazione, poi, si è rivelata solo apparente. Negli ultimi sei anni, le gang si sono moltiplicate in numero e potenza di fuoco, complice l’inerzia o, peggio, il sostegno, dei governi di Michel Martelly e, soprattutto, Jovenal Moïse. L’assassinio di quest’ultimo in una congiura di palazzo ha scatenato un conflitto del tutti contro tutti. Lo Stato è letteralmente imploso, trasformando Haiti nel “caso-scuola” di quelle che la politologa Mary Kaldor definisce “nuove guerre”, in cui si intrecciano competizione fra gruppi politici per la conquista del potere, crimine organizzato e violazione su larga scala dei diritti umani. Un fenomeno tragicamente comune nel Sud del mondo. I cui impatti, però, coinvolgono tutti: dal business delle “nuove guerre” traggono le risorse gli attori, statali e no, in grado di destabilizzare l’ordine globale.

In questo scenario disperato, si spiega la scelta del governo haitiano di rivolgersi all’Onu dopo le controversie del passato. Previo mea culpa e impegno a fare tesoro degli errori passati, il segretario generale Antônio Guterres ha accolto e rilanciato l’istanza alla comunità internazionale. Sono trascorsi oltre sedici mesi di silenzio imbarazzato. La timida risposta del Kenya si è rivelata, la settimana scorsa, una bolla di sapone. Meglio tacere e dimenticare per non dovere ammettere di avere fallito. E non per oggettive difficoltà quanto per miopia, ingordigia e pressapochismo. Insieme ad Haiti, l’Occidente invisibilizza il proprio volto oscuro. Proprio come accade con l’Afghanistan. Ma un mondo che non sa farsi carico di un frammento d’isola può affrontare in modo incisivo la crisi ucraina o il caos mediorientale? Rispondere al grido – ormai appena un gemito – di Haiti non è solamente un dovere etico. È in gioco il presente e il futuro del multilateralismo. A Port-au-Prince la comunità internazionale ha l’opportunità di dimostrare di essere ancora appunto “comunità” e non giungla.

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La denuncia Haiti, l'isola che non c'è, e la paralisi della politica internazionale

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31.01.2024

Un uomo cammina in una via di Port-au-Prince dopo il mercato - Reuters

È l’isola che non c’è. Nel dibattito pubblico e mediatico Haiti non esiste. Come molti altri pezzi di pianeta, si potrebbe aggiungere. La “prima Repubblica nera” della storia, fondata da ex schiavi cruentemente ribelli, però, non è, solo un cono d’ombra in più nel mappamondo. È un archetipo per comprendere i meccanismi di invisibilità e invisibilizzazione della politica internazionale. E le ragioni che li sottendono.

Haiti è una ferita che brucia sulla pelle dell’Occidente poiché lo inchioda di fronte alle proprie responsabilità. Non solo quelle storiche: l’indennizzo esorbitante di 150 milioni di franchi in oro, dieci volte il Pil del Paese, preteso dalla Francia nel 1825 per riconoscere l’indipendenza dell’ex colonia e rompere il suo isolamento internazionale. Quasi duecento anni dopo, all’indomani di una delle catastrofi naturali più letali degli ultimi secoli – il terremoto del 12 gennaio 2010 con 316mila morti in una manciata di giorni –, la comunità mondiale ha promesso di “ricostruire meglio” Haiti. “We build back better”, per impiegare le parole di Bill........

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