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Indicare il Pantone bianco e vederci il Ku Klux Klan

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Dopo anni di parole radioattive e di politicamente, follemente, aggressivamente corretto, Pantone, quel sommo oracolo delle tinte, papa laico del cromatismo per antonomasia, ha osato l’impensabile: eleggere il bianco, con il nome poetico di “Cloud Dancer” (Pantone 11-4201, per i cultori del dettaglio), come Colore dell’Anno 2026. Mai accaduto da 26 anni. Mai visto un bianco da quando nel 1999 il brand americano decise di istituire la ricorrenza “Color of the year”, decretando la tinta che avrebbe catturato lo spirito del momento (il primo, il Cerulean Blue, debuttò nel 2000 quale colore del millennio).

Non un bianco qualunque: un bianco “ballando tra le nuvole”, etereo, un bianco tregua. «È un invito a percorrere nuove strade e nuovi modi di pensare, nuovi capitoli», gongola Leatrice Eiseman, direttrice esecutiva del Pantone Color Institute, sperticandosi in lodi alla serenità come nemmeno una brochure zen per manager in burnout. E Laurie Pressman, presidente dell’istituto, lo dipinge come «un bianco non sbiancato, un bianco naturale», un lenzuolo pulito per l’anima afflitta da un mondo «saturo e rumoroso». Ma guai a loro e ai loro antidoti minimalisti al “sovraccarico sensoriale della vita moderna”! Perché in questa giungla di tweet e thread infuocati, ha da venire il bianco come non-colore aristotelico, pronto a scatenare l’inferno.

Bianco fa rima con «suprematismo bianco»

La domanda è infatti: dove hanno vissuto quelli di Pantone negli ultimi dieci anni? Se lo chiede la fashion editor del New York Times Vanessa Friedman, convocata dal quotidiano in “commissione” con altri colleghi: «Dato il recente dibattito politico, quando sento “bianco”, mi vengono in mente anche associazioni meno salutari, che dubito Pantone abbia preso in considerazione». «È certamente una scelta importante dopo un anno in cui i programmi DEI sono stati smantellati e il partito al potere ha discusso su quanto essere amichevoli con il nazionalismo bianco», ha chiosato la collega Callie Holtermann. «Forse non è questo che Pantone intende con “pace, unità e coesione”, ma immagino che verrà in mente ad alcuni spettatori».

Specie dopo un anno all’insegna del colore Mocha Mousse, una via di mezzo tra il cioccolato e il cappuccino, che Pantone giurava non avesse nulla a che fare con le carnagioni, ma che i woke avevano già eletto a “riparazione razziale tardiva”. «Le tonalità della pelle non hanno influenzato affatto», ha tagliato corto Pressman parlando al Washington Post e ricordando che appunto anche per Mocha Mousse nel 2025 e prima con Peach Fuzz nel 2024 «ci è stato chiesto se la scelta avesse qualcosa a che fare con la razza o l’etnia».

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