Trump può vincere, ma occorre un cambio di passo
È finalmente terminata la Convention di Chicago del Partito democratico, uno spettacolo scintillante che ha portato in soli cinque giorni alla beatificazione di Kamala Harris. La Chiesa di Roma di solito impiega anni ‒ se non decenni ‒ ad aureolare personaggi in odore di santità ma ai Dem americani sono bastate un paio di settimane, miracoli dell’asinello.
Abbiamo visto di tutto la scorsa settimana: ex presidenti ed ex first ladies, nemici giurati di una vita, un presidente in carica ancora rabbioso a cui hanno scippato la ricandidatura prima affossandolo e poi osannandolo con gli occhi lucidi al grido di “grazie Joe!”. Un rito salmodiante a cui non si sono sottratti storici antagonisti ma che, per “il bene della democrazia”, hanno messo da parte per qualche ora dissapori personali e divergenze politiche cementate nel tempo pur di raffigurare un partito compatto. Roba che al Nazareno, dove l’acrimonia umana tra i dirigenti è pressoché ricalcabile con la carta carbone, se la sognano.
Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad una sfilata di big con interventi quasi fotocopia, con alcune sfumature più stomachevoli come l’accenno alla “ossessione per le dimensioni”, con tanto di mimica, di Barack Obama, e il convitato di pietra della Democratic National Convention è stato sempre e soltanto lui: Donald Trump. Non un accenno, per esempio, ai preoccupanti dati economici che rischiano di portare ben presto gli Stati Uniti ad una recessione sistemica. Nemmeno Kamala Harris, la candidata presidente, ha dedicato un solo passaggio, che dico, una sola parola del suo discorso alla ricetta economica che ha in mente per risollevare le sorti di un grande Paese in cui il cittadino medio ha le tasche sempre più vuote ed una rabbia arrivata quasi al limite dell’umana........
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