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Tutti pazzi per Alessandro Barbero

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20.05.2024

Bastano i social, i podcast e l’eterna fascinazione per il Medioevo a spiegare il suo successo? Forse no: c’entra l’archetipo del professore comunista. E allora ecco le dirette con Dibba e l’invettiva sul "capitalismo dilagante"

Guarda che Barbero è bravo, un talento precoce, uno studioso di Medioevo come pochi”, mi dicono alcuni colleghi allarmati, saputo che stavo per fare questo pezzo. E allora diciamolo subito: Barbero è bravo. Bravo come storico del Medioevo, bravo come divulgatore. Barbero diverte, intrattiene, incanta platee diversissime su e giù per la penisola: da Floris al Petruzzelli, da Sarzana al San Carlo, dal Salone di Torino al Leoncavallo. Barbero è un format (“In viaggio con Barbero”), Barbero è un podcast (“Chiedilo a Barbero”), Barbero è un canale YouTube (“La storia siamo noi”). Barbero è una diretta social con Dibba per lanciare “Scomode verità. Dalla guerra in Ucraina al massacro di Gaza”, Barbero è una rockstar medievista, tipo Jethro Tull, polistrumentista, eclettico, carismatico, l’occhietto spiritato, come Ian Anderson. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi come altri prima di noi sul fenomeno Barbero. Sul perché e per come si è generato. Quali corde ha saputo toccare. Su cosa insomma spinge a farsi settanta metri di fila a Torino per il firmacopie di Barbero come uno Zerocalcare qualsiasi, o a dannarsi per trovare posto a un suo spettacolo (che i suoi fan non chiamerebbero mai “spettacolo”, semmai conferenza, intervento, lectio). Ho capito l’entità del fenomeno Barbero un po’ di tempo fa, quando persone davvero molto estranee a libri e festival culturali hanno cominciato a dirmi “ma tu che conosci questo e quello non è che puoi rimediare un biglietto per Barbero che è tutto esaurito”. Ed erano disposte a farsi parecchi chilometri, a pagarlo anche il doppio, a intrufolarsi magari di nascosto, qualsiasi cosa insomma pur di godersi Alessandro Barbero in “Cosa pensava la donna nel Medioevo: Caterina da Siena”. A Napoli, invece, orde di ragazzini in coda per sentire Barbero su Federico II, “tra storia e leggenda”. A quel punto non si poteva più restare indifferenti. Bisognava capire.

Diciamolo subito: Barbero è bravo. Fatta la doverosa premessa è lecito interrogarsi sul fenomeno che spinge a farsi 70 metri di fila per il firmacopie

Prima ipotesi, la più ovvia: il barberismo è figlio dei social e d’una frettolosa smania di sapere modellata su podcast e tutorial. Caricarsi a pallettoni con Barbero per poi spuntarla su Facebook in una furibonda disputa con @Eraclito75 sulla battaglia di Lepanto e le sue conseguenze sul nostro assetto geopolitico (Lepanto: un primo allargamento della Nato?). Qui Barbero si gioca anche una lunga militanza da “wargamer”, in gergo un “grognard”, cioè un veterano dei giochi di simulazione di strategia militare, con l’aria vagamente ossessivo-maniacale di chi da giovane è stato un piccolo Mozart del “Risiko!”. Questo dei social è un punto decisivo per due motivi. Primo perché soprattutto su Facebook, il social dei vecchi, la storia con la S maiuscola è rinata come eterna contesa e miniera di dispute, controversie, dibattimenti tra falangi di nerd che si danno battaglia cercando su Google una citazione a effetto da Marc Bloch per fare il pieno di like e vincere la Palma d’Oro del “saperla lunghissima”, apice di un pomeriggio solitario davanti a uno schermo con la schiuma alla bocca. Poi perché a differenza di altri grandi divulgatori (Sgarbi, Daverio, Piero e Alberto Angela), Barbero non viene dalla tv. Barbero è una web-star. Sì, d’accordo,........

© Il Foglio


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