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Siamo tutti stati Forrest Gump nella nostra vita

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06.07.2024

Trent’anni fa arrivava nelle sale il film di Zemeckis, un successo globale a dispetto della critica. Molta America, molte chiavi di lettura, molti motivi per ritrovare nella vita reale qualcosa del tipo incarnato da Tom Hanks

Interrogato sui grandi bluff della storia del cinema, ChatGPT lo infila al terzo posto dopo “Titanic” e “Avatar”. Anche per i cinefili più agguerriti è uno dei film più sopravvalutati di sempre: scialbo, infantile, una versione “baby boomer” di una qualsiasi favoletta Disney. In tanti però versano una lacrimuccia a ogni passaggio televisivo, e su Netflix è uno dei titoli con più like. “Forrest Gump” usciva il 6 luglio del ‘94, e da trent’anni non ha mai smesso di essere qualsiasi cosa ci si voglia vedere dentro: un’esaltazione dei “veri valori americani”, un manifesto del populismo, una metafora del cittadino scemo e obbediente caro a ogni potere, una bandiera del “buonismo” prima maniera, quello che da noi s’intestò Veltroni.

E poi ancora una seduta di autocoscienza collettiva su un bel pezzo di storia americana, ma anche una riflessione sul caso, il destino, la serendipity, con quella piuma dei titoli di testa che volteggia in aria e alla fine si posa ai piedi delle Nike di Forrest Gump. Un film che chiude i conti coi fantasmi del Vietnam, un’apologia della vecchia America razzista, persino una metafora della “new economy” di Bill Clinton, qualsiasi cosa volesse dire all’epoca. “Forrest Gump” era un film liberal e progressista, ma anche di destra, anzi della destra radicale, come scrisse il Washington Post (“un’occasione per costruirsi falsi ricordi, per salvare il nostro ego maltratto, facendolo sprofondare in una nostalgia che assomiglia a un sonno morale”). “Forrest Gump” nel pantheon dei democratici ma anche dei MAGA. Ancor oggi c’è un po’ di “Forrest Gump” in quel Biden sempre fuori-posto che si guarda intorno disorientato. C’è tanto “Forrest Gump” anche in Trump (e naturalmente una pagina “Forrest Trump” su Instagram), catapultato anche lui un po’ per caso e con traiettorie imprevedibili sul palcoscenico della Storia, anche se dalla parte sbagliata. Al processo per i fatti di Capitol Hill, l’avvocato di Jake Angeli, indimenticabile “sciamano” del golpetto dei Trump Boys, ha detto che il suo assistito era andato in Campidoglio “come Forrest Gump”, costruendo quindi la difesa su un atto di pura e disinteressata obbedienza agli eventi, come un bravo ragazzo americano qualsiasi. Solo che c’era andato a torso nudo, con un cappello di bisonte in testa, l’occhio da matto e la faccia dipinta di blu.

Nel 1994, il film di Zemeckis era il sentimental-blockbuster che macinava miliardi in ogni paese. L’evento di una stagione cinematografica che pure aveva grandi titoli: “Pulp Fiction”, “Il Re leone”, “Le ali della libertà”, “Il corvo”, “Intervista col vampiro”, “Il postino”, “Ed Wood”, “Natural Born Killers” (oggi ci si strugge per un “Barbie” ogni tanto, ma all’epoca averne così tanti tutti insieme era normale). Impossibile sfuggire al fenomeno. L’immagine di Tom Hanks, di spalle, seduto su quella iconica panchina, con la valigia a terra, era ovunque. La “gumpmania” travolgeva tutto. Il film si prolungava in una miniera di gadget, cappellini, scatole di........

© Il Foglio


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