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Aiuto, è tornato Techetechetè

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17.06.2024

Sui piccoli schermi torna la toppa del palinsesto del servizio pubblico, raccontata da anni come uno dei migliori programmi Rai. È il business della nostalgia

È ricominciato “Techetechetè”, ed è subito ultimo giorno di scuola, serrande abbassate, “chiuso per ferie”, l’Italia in bianco e nero del “Sorpasso”, “Studio Uno”, “Canzonissima”. Un’Italia che esiste solo come saudade televisiva su Rai 1. L’iconico montaggione anticipa come al solito una marea di anticaglie, revival, avanzi di magazzino, repliche di fiction a breve spalmate in loop su tutto il palinsesto. Ci sarà la fiammata degli Europei. Poi il nulla. In questi dodici anni di “Techetechetè” che sembrano venticinque ho attraversato tutte le fasi della partecipazione spettatoriale, fino alle soglie dell’insopportabilità: “Che bell’idea!”, “finalmente fanno lavorare i montatori Rai”, “eh la televisione di una volta!”, “meglio le teche che i nuovi programmi”, “ormai è un rito”, “ma questa puntata non l’avevano già fatta?”, “ancora Mina no, vi prego, basta”.

I primi segni di fastidio sono arrivati con le puntate a forma di jukebox. Una sfilata di canzoni tenute insieme da labili associazioni, via via sempre più pretestuose o cervellotiche. Più un omaggio alla Siae che alla memoria collettiva. Quando i montatori hanno cominciato a firmare le puntate, “written & directed by”, ecco poi tutta una deriva “arty” per accostare nomi, cose, città, come un “Blob” in salsa senile. La pretesa di raccontare con le teche “le trasformazioni della società”, il montaggio didattico, la dilatazione a quarantacinque minuti a puntata. Monografie che si intitolano “Angeli e demoni”, stacchi à la Eisenstein tra Padre Mariano, “Pregherò” di Celentano, il gospel di Edoardo Vianello, “O Mio Signore, in questo mondo, io non ho avuto tanto”. Ma la forza di “Techetechetè” è che intorno alla stessa gag, scenetta, canzone si possono costruire puntate infinite. E dal Vianello trascendentale a quello estivo, pinne, fucile e occhiali, o a quello con Wilma Goich, si tirano fuori sempre montaggi diversi. È come coi cataloghi delle piattaforme. Lo stesso film ripreso in più voci, per far sembrare il magazzino vastissimo. Mentre stai sul divano e scorri i titoli in cerca di un film da vedere, “Rocky” te lo ritrovi quattro volte: prima in “film con Sylvester Stallone”, poi in “film sportivi”; “imprese impossibili”; “classici americani”. Un’illusione ottica. Un grandangolo del repertorio. Con “Techetechetè” è lo stesso, ma col canone al posto dell’algoritmo.

I montaggi si dilatano in infinite combinazioni (forse già da anni “Techetechetè” lo fanno con l’IA, ma l’Usigrai non lo sa). Ecco la micidiale puntata sui “tormentoni estivi”, ogni estate riprogettata da vari ingressi, come in un’officina di letteratura potenziale: con Bruno Lauzi, senza Bruno Lauzi, prima Marcella Bella, poi Alan Sorrenti, Nico Fidenco, nel continente nero paraponziponzipò. Staccati, attaccati, legati a un granello di sabbia, come in un’allucinazione borgesiana, intrappolati in una biblioteca di Babele dei tormentoni estivi. Una cosa che........

© Il Foglio


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