Caro Costa, il vero coraggio è guarire il processo. Non nasconderlo alla stampa
Il garantismo, quello autentico, è una passeggiata a piedi nudi su una fune sospesa nel vuoto e unta di sapone. Non è stare da una parte, ancorché la parte del più debole, ma è piuttosto un proibitivo esercizio di equilibrio tra diritti contrapposti. Il divieto di pubblicazione “integrale o per estratto” delle ordinanze cautelari fino al termine dell’udienza preliminare è, per restare in metafora, una maldestra scivolata sulla fune. Di cui la Camera si è resa protagonista.
Perché un provvedimento che limita la libertà personale non può essere sottratto al controllo dell’opinione pubblica, al pari di tutti gli atti giudiziari che hanno una motivazione. La cui funzione non è solo quella di consentire alla parte soccombente di adire con l’impugnazione il giudice superiore. Ma è anche quella di garantire un controllo democratico sul processo.
Quando diciamo che il giudice amministra la giustizia in nome del popolo italiano, intendiamo che il limite al suo magistero è il complesso di valori costituzionali in cui si esprime una sovranità popolare. Che si esercita con la pubblicità delle udienze e attraverso il controllo critico dei cittadini fin dall’avvio delle indagini preliminari, in ragione del loro interesse a conoscere come viene amministrata la giustizia.
Un’ordinanza di custodia cautelare è uno dei provvedimenti più gravi che un giudice può adottare, perché comprime la libertà senza che sia intervenuto un giudicato di condanna. Sottrarre le motivazioni di una simile scelta al controllo dell’opinione pubblica per tutto l’arco temporale delle indagini preliminari vuol dire sterilizzare l’azione penale nella sua procedura. Ma quante volte dietro la legalità formale di un provvedimento cautelare si cela un abuso autoritativo dello Stato? Pensare che quest’ultimo sia sindacabile solo dentro la dialettica tra accusa e difesa significa decretare il divorzio del processo dalla realtà della vita.
Non mi nascondo che nella prassi degli ultimi decenni il controllo popolare sul processo è stato declinato dalla stampa nella gogna, amplificando unicamente le ipotesi di accusa, quando non elementi privi di rilevanza penale, ma capaci di produrre un danno di reputazione agli indagati e ai terzi indirettamente coinvolti nell’indagine. Tuttavia questa distorsione non si risolve censurando il diritto-dovere del giornalismo di informare, ma piuttosto vincolando i magistrati a inserire nella richiesta e nell’ordinanza cautelare solo elementi di prova pertinenti con l’imputazione. Ormai da tempo, la contestualizzazione del fatto è diventata un alibi per istruire un processo mediatico, centrato sulle coordinate del moralismo, in cui si accerta non la colpevolezza ma piuttosto l’ingiustizia, affidando l’esecuzione della pena ai giornalisti. Non a caso la gogna si realizza quasi sempre attraverso intercettazioni, informative e altri atti istruttori che sono scarti di materiale probatorio, privi di alcuna rilevanza ai fini di una........
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