Tim Chattell. "Dalla Russia difficile colpire l'Italia"
(a cura di Marco Varvello)
Una guerra combattuta a colpi di droni. In questi tre anni e mezzo, man mano che la linea del fronte tra Russia e Ucraina si impantanava e la disponibilità di armamenti tradizionali, tank e artiglieria si assottigliava, proporzionalmente cresceva l’uso sia di MUAS (Multirotor Uncrewed Aerial Systems) guidati a distanza, sia di FPV (First Person View), più agili e dotati di telecamera.
Le forze armate ucraine sono state le più veloci ad adattarsi alle nuove strategie con cifre impressionanti: da qualche centinaio utilizzati all’inizio del conflitto nel 2022 si è arrivati a 9 mila unità al giorno. La produzione nazionale è salita a 30 mila al mese, il resto viene acquistato sul mercato da produttori all’80 per cento cinesi. Vengono poi adattati all’uso militare: gli innocui droni di marchi famosi in Occidente, come DJI, Autec Robotics o Yuneec International, in mano ai tecnici ucraini diventano strumenti per micidiali attacchi a carri armati, a linee di rifornimento e logistica, a singoli o drappelli di soldati.
Entrambi i fronti ammettono che ormai il 70 per cento delle vittime è causato dai droni. Anche i russi si sono rapidamente aggiornati: ai vecchi, ma sempre micidiali, droni Shahed di fabbricazione iraniana, per attacchi suicidi a lungo raggio, hanno affiancato più tecnologici droni di produzione interna e sofisticati strumenti di jamming, interferenza elettronica, per far perdere il controllo di quelli ucraini in volo. Una evoluzione delle strategie militari che suona come un campanello d’allarme per la Nato e gli eserciti europei.
Un ponderoso studio del RUSI (Royal United Services Institute), appena pubblicato da Robert Tollast, esperto militare del prestigioso think tank londinese, traccia un quadro sconfortante. Non solo le forze armate occidentali non sono attrezzate alla guerra con i droni, ma rischiano di non esserlo per anni, vista la dipendenza del settore da produttori e componenti “Made in China”. Cruciale poi il quasi monopolio, sempre cinese, di risorse rare: materiali come il germanio (sensori a infrarossi) o il neodimio (magneti e batterie).
Il modello ucraino
Il modello ucraino non è riproducibile perché, spinti dalla necessità di difesa, i tecnici di Kyiv hanno con genio e inventiva semplicemente adattato i droni cinesi a scopi militari, senza troppo curarsi della dipendenza da produttori pericolosi in termini di sicurezza e spionaggio. Nel 2023 l’allora premier Denys Shmyhal dichiarava che il suo Paese acquistava addirittura il 60 per cento dell’intera produzione della DJI. Una dinamica poi rallentata da problemi di hackeraggio russo del software e dalle restrizioni imposte dal governo cinese nel 2024 ma che è ancora largamente in essere grazie alle importazioni tramite Paesi terzi.
Così gli ucraini nel 2025 si sono procurati qualcosa come quasi 4 milioni di droni, Nato ed europei si stanno solo ora adeguando alla nuova sfida. Risultato? Quando a settembre una ventina di droni russi hanno sconfinato in Polonia sono stati abbattuti con gli F-35, italiani compresi.
Il problema di sicurezza e costi: la vulnerabilità europea
"È chiaro che c’è un problema di sicurezza e di costi", ci spiega Tim Chattell, Capitano dell’Esercito britannico e ricercatore presso Chatham House, l’altro grande think tank britannico. "Di sicurezza – prosegue – perché se l’incursione fosse stata fatta con alcune centinaia di droni, come spesso negli attacchi russi, sarebbe stato impossibile fermarli tutti. Di costi perché il grande vantaggio dei droni è di essere prodotti di massa, dal prezzo di alcune migliaia di dollari, massimo qualche decina di migliaia. Non paragonabile insomma con........





















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