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Liberalizzare l’uso delle immagini del patrimonio culturale contribuisce alla diffusione della cultura

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29.03.2024

Della riproduzione di immagini dei beni culturali mi sono già occupato in questo spazio, motivando le ragioni a favore della piena liberalizzazione del loro uso e riuso. Se ci torno è perché nell’ultimo anno la situazione si è molto ingarbugliata. È dell’aprile dello scorso anno un decreto ministeriale (DM 161/2023) del ministro Gennaro Sangiuliano relativo ai criteri di tariffazione per la riproduzione di immagini relative al patrimonio culturale statale, che ha introdotto una serie di limitazioni e imposto il pagamento anche addirittura nel caso di pubblicazioni scientifiche.

Si tratta di un decreto che rappresenta un segno di un profondo e grave ritardo culturale non solo rispetto alle tendenze internazionali, innanzitutto europee, finalizzate a favorire l’accesso aperto, la libera circolazione dei dati, le Citizen sciences, ma anche rispetto ai fermenti presenti nella società, nel mondo delle imprese culturali e creative, nell’associazionismo, nelle professioni.

È di pochi giorni fa la pubblicazione di un nuovo decreto (108/2024) che, dopo le vive proteste del mondo scientifico da parte delle consulte universitarie e associazioni, del Consiglio Universitario Nazionale e addirittura della Accademia dei Lincei, ha introdotto modifiche al decreto 161 di un anno fa. Certamente è un passo in avanti, da salutare con favore come esito positivo a fronte delle proteste, ma molti nodi restano irrisolti.

Ma procediamo con ordine. Il decreto 161, ispirato dall'allora capo dell’ufficio legislativo, Antonio Leo Tarasco (poi rimosso, forse anche a seguito dei pasticci provocati da questo decreto e, secondo un’antica tradizione italica, promosso), rispondeva chiaramente all’obiettivo di far cassa: un obiettivo dichiarato fin dalla presentazione al Parlamento delle linee di indirizzo (“bisogna proteggere il patrimonio rappresentato dalle immagini, anche digitali, del nostro patrimonio culturale, attraverso una adeguata remuneratività”, scriveva allora Sangiuliano) e perseguito anche con gli aumenti dei biglietti dei musei, l’introduzione del biglietto al Pantheon, la tassa per l’alluvione della Romagna, ecc.).

Gli esiti di quel decreto sono stati immediati. C’è chi ha ricevuto richieste esosissime per la pubblicazione di volumi, chi ha proposto la disobbedienza civile e chi ha pensato, italicamente, di far finta di niente (meglio non chiedere autorizzazioni e preventivi, tanto nessuno controlla). C’è anche chi ha suggerito sotterfugi a dir poco “bizzarri”: facendo risultare la pubblicazione realizzata da un Istituto del MiC e aggiungendo il nome tra gli autori di suoi dipendenti si sarebbe ottenuto l’esonero dal pagamento di tali tariffe. Può apparire assurdo, ma è così: per la pubblicazione di un vaso o una statua da parte di un universitario o di un libero ricercatore si sarebbe pagato un canone, non dovuto se a pubblicare è un funzionario o un dirigente del MiC. Le case editrici scientifiche hanno cominciato a chiedere agli autori liberatorie scaricando su di loro i costi dei canoni. Altre case editrici hanno valutato la possibilità di escludere dai propri cataloghi volumi d’arte e archeologia, oppure di non pubblicare più foto. Un collega recentemente ha lasciato in bianco lo spazio di una foto, precisando “ foto non autorizzata”.

Non sono mancati episodi esilaranti, se non fossero tragici. Una vicenda, raccontata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, sembra degna di un nuovo racconto di Andrea Camilleri: “La concessione della foto”! Una collega archeologa, docente a contratto all’Università di Padova, quindi una precaria, Piergiovanna Grossi ha pensato fosse doveroso informare il pubblico non specialista su una ricerca sull’Oratorio del Montirone ad Abano Terme (Padova), pubblicando un articolo in una rivista con una buona diffusione locale. Volendo corredare lo scritto con due foto di documenti dell’Archivio di Stato di Venezia, ha chiesto l’autorizzazione dando avvio a un lungo carteggio di e-mail, note protocollate e un contratto (ma quanto costa al MiC il lavoro del personale impegnato in queste procedure bizantine?). La richiesta è stata di 64 € per le due foto se fornite dall’Archivio, oltre a 32 € di marche da bollo. Oppure 2 euro nel caso di foto fatte dall’Autrice. Più 32 € di marche! Non è tutto: per ritirare le lettere di concessione si poteva scegliere: o personalmente a Venezia, o inviando una lettera contenente «€ 7,45 in francobolli per la spedizione raccomandata». Anche per questo recentemente la Corte dei Conti ha invitato il MiC a soprassedere, evidenziando che i costi sostenuti dal MiC sono di gran lunga superiori alle entrate.

Chi parla non difende una vecchia idea di cultura separata dall’economia ma è pienamente convinto che il patrimonio culturale possa e debba contribuire anche allo sviluppo economico e sociale del Paese. L’economia della cultura, però, non coincide con il pagamento di balzelli. Mi limito solo a un caso. In Valpolicella, in un territorio con vigneti di pregio, un produttore di Amarone non solo ha sacrificato parte del suo vigneto per fare realizzare scavi archeologici di una villa romana, ma ha favorito e sostenuto quelle ricerche e i restauri, legando la propria produzione di vini alle immagini dei mosaici della villa: la produzione e le vendite sono cresciute sensibilmente. Ecco un esempio virtuoso di economia della cultura: si pagano più tasse, si assume più personale, si promuove il territorio.

Musei italiani, come l’Egizio di Torino, e stranieri non a caso promuovono la diffusione libera delle immagini dei loro patrimoni. Il Rijksmuseum di Amsterdam, per esempio, non solo hanno liberalizzato l’uso e il riuso delle immagini delle proprie collezioni ma ha addirittura istituito un premio per il miglior riuso delle immagini in vari campi, promuovendo così non solo il museo ma favorendo anche la creatività imprenditoriale.

Il nuovo decreto appena pubblicato, a seguito delle proteste, fa una parziale inversione, introducendo una serie di gratuità, in particolare per le pubblicazioni scientifiche (soprattutto quelle in riviste censite dall’ANVUR) e divulgative, i libri con tiratura inferiore a 4000 copie e per gli articoli “in giornali e periodici nell’esercizio del diritto-dovere di cronaca”. Come si diceva, è un passo in avanti. Ancora una volta, però, il decreto non fa seguito ad audizioni, incontri e confronti con le parti interessate, come pure da più parti si era chiesto. L’attuale ministro evidentemente non ha bisogno di confrontarsi con chi opera nel campo dei beni culturali, dell’università, della ricerca, dell’imprenditoria culturale e creativa.

Preoccupano soprattutto i notevoli spazi di discrezionalità lasciati agli uffici del Ministero (non........

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