Hong Kong, sprofondo rosso
A Hong Kong sono in corso due processi cruciali per la democrazia, eppure avanzano entrambi nel silenzio e con lentezza, come se non ce ne fosse alcun bisogno. Del resto, il finale è così scontato, e le condanne così sicure, che nessuno pare avere fretta. Non ne ha il governo fantoccio dell’isola, né il regime di Pechino che dal 2020 lo manovra con pugno di ferro: tutti i principali leader dell’opposizione democratica sono in carcere, quindi possono restare alla sbarra anche per anni. Il processo contro i 47 leader delle proteste contro la Cina, primo fra tutti Joshua Wong, lo studente universitario che nel 2019 aveva infiammato le piazze contro la fine delle libertà politiche, è iniziato un anno fa, nel febbraio 2023. A parte Wong e pochi altri, che hanno resistito alle pressioni del regime, gli imputati sono stati costretti a dichiararsi colpevoli e indotti ad accusare i loro stessi compagni. Tutti rischiano il carcere a vita in base alla «Legge sulla sicurezza nazionale», promulgata a Hong Kong nel giugno 2020 non dal Parlamento dell’isola, ma dall’Assemblea nazionale del popolo di Pechino. La norma ha vietato tutte le libertà che erano state garantite a Hong Kong nei 154 anni passati sotto la bandiera britannica e che la Cina, rientrata in possesso dell’ex colonia nel 1997, aveva promesso non avrebbe sfiorato per mezzo secolo, cioè fino al 2047.
Malgrado la sua rilevanza, è quasi impossibile avere notizie sul «processo dei 47», come è stato ribattezzato. Si sa solo che, per arrivare a condanne pesanti e ovviamente esemplari, la Cina ha modificato anche la procedura e ha rimpiazzato la corte locale con tre giudici designati dalla Corte suprema popolare di Pechino, il massimo organo giurisdizionale cinese. Nel tribunale di........
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