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Ho fatto un corso per parlare in pubblico, e ho scritto un libro. Anzi, due

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15.12.2023

Mi capita spesso di parlare in pubblico per lavoro. Magari in qualche convention aziendale, dove perlopiù si parla in inglese, anche se a scuola si è studiato francese, ma si sa, l’inglese manageriale si impara in fretta, al massimo basta improvvisare una supercazzola, e tutti ascoltano lo stesso interessati. Magari chi ascolta il relatore pensa pure: “Che paroloni che usa, è un grande!”

Solo che io la supercazzola non volevo farla. Non parlo nemmeno tanto volentieri in pubblico. Mi imbarazza, esce una timidezza strana, preferisco ascoltare, anzi osservare. Allora decido di iscrivermi ad un corso di public speaking, che in italiano ormai desueto nelle aziende significa parlare in pubblico, e lo faccio one to one, che in italiano è: singolarmente. Cioè, io e la docente. Lei è davvero brava, non utilizza quei metodi tipo: inspira e poi espira, usa parole ipnotiche e impara la pnl. No, lei mi dice che devo essere me stessa. “Ma siamo sicuri?” le chiedo io, e lei temeraria mi risponde di sì. In effetti grazie al suo insegnamento meno canonico, ma più profondo, riesco ad affrontare meglio il pubblico composto da tanti piccoli manager che ascoltano me, piccola manager. Ma niente, nonostante i miglioramenti, cosa faccio? Scrivo un racconto che non c’entra nulla con aziende o parole in inglese e che si intitola “la sindrome dello spugnato giallo”. Lo scrivo dopo una telefonata con un amico, uno scrittore, che grazie a una mia battuta mi chiede di scrivere un breve racconto. Io lo faccio e glielo invio e........

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