La musica di Blue di Derek Jarman è un inno alla vita
Vedere Blue, l’ultimo film di Derek Jarman, in una sala di Roma nel 1993 è stata una delle esperienze cinematografiche più esaltanti e allo stesso tempo devastanti della mia vita di ventenne.
Il film, realizzato dal regista britannico un anno prima di morire di aids, non ha immagini: sullo schermo compare per tutto il tempo solo un blu fisso, per l’esattezza il colore chiamato International Klein blue ideato (e registrato) dall’artista francese Yves Klein nel 1960: un blu oltremare particolarmente intenso. È un blu parente moderno del pigmento a base di lapislazzuli che vediamo nei codici miniati medievali, nei manti di tante madonne tardogotiche e nel cielo del Giudizio universale di Michelangelo, dietro l’altare della Cappella Sistina. È un colore drammatico e volubile che, quando lo fissiamo, può comunicare pace o atterrire. È il colore della meditazione e dell’infinito ed è il colore che Jarman ha scelto per trasformare in un film i suoi ultimi giorni di vita.
Quello schermo così saturo di blu è forse l’uso più estremo della soggettiva che sia mai stato fatto nella storia del cinema. È come se l’occhio della cinepresa si rivoltasse verso l’interno e si trasformasse in un occhio interiore obbligandoci a vedere quello che vedeva Jarman quando, a causa della malattia e dei farmaci che assumeva, aveva momentaneamente perso la vista.
Ma non è del tutto corretto dire che Blue non ha immagini: quel fotogramma apparentemente fisso si popola di figure, allucinazioni se vogliamo, o visualizzazioni, se abbiamo dimestichezza con certe tecniche di meditazione. Ma sopratutto è un film in cui la cui colonna sonora è fondamentale. Quel cd blu (sono blu anche la custodia di plastica e il libretto) che corsi a comprare appena uscì rimane uno dei miei feticci musicali perché ferma su un supporto fisico quell’esperienza trascendente che è stata........
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