La sindrome del «vorrei ma non oso» ha colpito ancora a un passo dal traguardo. Quando una moderata stretta sulle intercettazioni stava per essere approvata in commissione giustizia al Senato, il governo ha chiesto un rinvio, come aveva già fatto per il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. È la prova anzitutto di quanto forti siano le pressioni che una parte della magistratura esercita dall’esterno e dall’interno dei palazzi, avendo occupato una gran parte degli uffici legislativi e dei gabinetti che contano. Ma è anche la prova di quanto sia fragile la cultura dello Stato di diritto in una maggioranza che pure si dichiara garantista, ma che mastica il garantismo non diversamente dalla numismatica babilonese.

C’era da prevedere che accadesse. Perché le intercettazioni sono il pilastro del processo mediatico, attraverso cui si esercita il controllo sociale del potere magistratuale sugli altri poteri e sulla società. Di più, esse rappresentano l’inconscio, cioè la fotografia più profonda e più spietata delle intenzioni, dei desideri, dei conflitti che stanno dietro i fatti pubblici e privati. Se la maggior parte della classe dirigente e dei cittadini non vuole rinunciarvi, è perché a loro modo le intercettazioni incarnano un diritto, per lo meno nel malinteso senso in cui i diritti vengono percepiti al nostro tempo: il diritto di sapere cosa c’è sotto.

Questo diritto a sua volta soddisfa la morbosa suggestione di smascherare e mettere a nudo l’autorità, di cui da sempre si diffida. Perché le intercettazioni mostrano, più di ogni altro tema, l’irrisolto rapporto della nostra società con il potere, la tentazione costante di sterilizzarlo e rimuoverlo in blocco. Fin dal luogo delle origini, cioè dall’inconscio sociale dove il potere germoglia e cresce, coltivando le sue ambizioni.

Se la magistratura può imporre alla politica di non toccare il sistema, è perché si fa forte di un consenso sociale che ha saldato le intercettazioni al Paese in un abbraccio indissolubile, tanto da farne la sua lingua e il suo racconto. Nessuno può spezzare questo nodo senza costruire un consenso uguale e contrario sulle garanzie. Perciò le sortite verbali del guardasigilli sulla riforma della giustizia e delle carriere dei magistrati si mostrano per quello che sono: velleità di chi dimostra di non dispone del realismo necessario a governare.

Alessandro Barbano

Nato a Lecce il 26 luglio 1961 è un giornalista, scrittore e docente italiano. È stato condirettore del Corriere dello Sport, editorialista di Huffington Post, conduttore della rassegna stampa di Radio radicale, Stampa e Regime, e curatore della rubrica di libri War room books sul sito romaincontra.it. Ha diretto per quasi sei anni il Mattino di Napoli (2012- 2018) e per cinque è stato vicedirettore del Messaggero. Laureato in giurisprudenza all'università di Bologna, giornalista professionista dal 1984, ha insegnato teoria e tecnica del linguaggio giornalistico, organizzazione del lavoro redazionale, sociologia delle comunicazioni di massa, retorica, linguaggi e stili del giornalismo, giornalismo politico ed economico all'Università La Sapienza di Roma, all'Università del Molise, alla Link University e all’Università Suor Orsola Benincasa. È autore di saggi dedicati al giornalismo e a temi di carattere politico e sociale: La Gogna (Marsilio 2023), L’inganno (Marsilio 2022), La visione (Mondadori 2020), Le dieci bugie (Mondadori 2019), Troppi diritti (Mondadori 2018), Dove andremo a finire (Einaudi 2011), Degenerazioni (Rubbettino 2007). Al giornalismo ha dedicato Professionisti del dubbio (Lupetti 1997), l’Italia dei giornali fotocopia (Franco Angeli 2003) e Manuale di giornalismo, (Laterza 2012). Presiede la Fondazione Campania dei Festival. Nominato dal Ministro dei Beni culturali, è componente del consiglio di indirizzo del Teatro di San Carlo e del museo di Palazzo Reale di Napoli. Dall'11 marzo 2024 è direttore del Riformista.

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Il malinteso senso del diritto

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04.04.2024

La sindrome del «vorrei ma non oso» ha colpito ancora a un passo dal traguardo. Quando una moderata stretta sulle intercettazioni stava per essere approvata in commissione giustizia al Senato, il governo ha chiesto un rinvio, come aveva già fatto per il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere. È la prova anzitutto di quanto forti siano le pressioni che una parte della magistratura esercita dall’esterno e dall’interno dei palazzi, avendo occupato una gran parte degli uffici legislativi e dei gabinetti che contano. Ma è anche la prova di quanto sia fragile la cultura dello Stato di diritto in una maggioranza che pure si dichiara garantista, ma che mastica il garantismo non diversamente dalla numismatica babilonese.

C’era da prevedere che accadesse. Perché le intercettazioni sono il pilastro del processo mediatico, attraverso cui si esercita il controllo sociale del potere magistratuale sugli altri poteri e sulla società. Di più, esse rappresentano........

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