Suviana, 11 aprile 2024 – I processi, le telecamere e le maglie con impresse le foto dei propri cari morti nella strage e diventati in fretta invisibili, se non fosse per loro – i parenti – che ne tengono viva tenacemente ancora la memoria. Una memoria che – a sedici (quasi diciassette anni ormai) dal rogo della Thyssen, in cui morirono sette operai – si sostanzia anche di un film (‘La fabbrica dei tedeschi’ di Mimmo Calopresti) e di uno spettacolo teatrale.

Perché quanto accadde a Torino fu considerato epocale. In quei giorni, quando sembrava impossibile che una strage del genere potesse avvenire in una grande azienda, in una multinazionale che dovrebbe essere sinonimo (proprio per le sue dimensioni) di sicurezza, si disse con tono perentorio: "Mai più". L’irripetibilità di quella frase sembrava che dovesse essere scolpita. Perché niente di simile sarebbe dovuto più accadere in un Paese civile che ha nell’articolo 1 della Costituzione la frase: "Repubblica fondata sul lavoro".

E invece quel "Mai più" sarà ripetuto troppe volte ancora. Dando vita a dei riti con relative liturgie che spaziano dall’indignazione e dalla rabbia dei primi giorni, cui si accodano un po’ tutti, alla richiesta di giustizia che invece, col passare del tempo, viene portata avanti sempre da meno persone: se non quelle che continuano ad avere ogni giorno quel groppo in gola mentre guardano le foto dei propri cari e sanno che nulla (nemmeno un risarcimento adeguato) potrà in qualche maniera lenire un dolore che è impossibile da placare. E poi arrivano i processi, battaglie giudiziarie lunghe, che mettono a dura prova i nervi, i sentimenti e molto altro. E quel "Mai più", nel frattempo, viene pronunciato da un’altra parte.

Non si può morire sul lavoro. Non si dovrebbe morire in fabbrica, che sia piccola o grande ha poca importanza. Ma siamo ben lontani da quella "sicurezza sul lavoro" che viene ripetuta, come un comandamento, proprio come quel "Mai più". Ma tutto ciò diventa così vuoto anche nell’enunciazione, se si guardano i dati dei primi due mesi di questo 2024: 119 morti, come in una guerra. La contabilità luttuosa è ancora più sinistra nelle declinazioni dei numeri: +20% di vittime sul lavoro rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E ancora non ci sono i dati di marzo e aprile.

Nel frattempo ci sono stati anche 92.711 infortuni e le malattie professionali sono aumentate del 35,6%. Si muore di lavoro, ci si ammala di lavoro nell’Italia del 2024. Ci siamo assuefatti al pronunciare quel "mai più", a considerare quasi inevitabile che ogni due mesi ci possano essere stragi, in cui muoiono almeno dalle 5-7 persone: è successo in un grande cantiere edile a Firenze a febbraio e sessanta giorni dopo in una centrale idroelettrica nel Bolognese. Più o meno lo stesso numero di vittime della Thyssen, la strage che considerammo epocale. L’indignazione e la rabbia si stemperano sempre più velocemente. Non ci stupiamo quasi più che si possa morire di lavoro. E questo forse perché ci siamo adattati a considerare il lavoro non un diritto inviolabile, così come la nostra Costituzione lo identifica nel primo dei suoi 138 articoli.

Non pensiamo nemmeno, rivedendo la folla oceanica che riempiva il Circo Massimo o piazza San Giovanni a Roma (agli inizi di questo millennio erano milioni alle manifestazioni), che valga la pena di ritornare in piazza. Questione di corpi intermedi anche: i sindacati meno rappresentativi e non sempre in grado di intercettare urgenze ed esigenze dei lavoratori (che da tempo non sono più un corpo unico, indistinto, la massa novecentesca). Le vittime di quest’ultima strage, tra qualche mese, torneranno invisibili. Ma per le orecchie più attente risuoneranno le parole che il presidente Mattarella pronunciò a settembre, a sedici giorni dalla strage sui binari, a Brandizzo. "Lavorare non è morire. E invece i morti di queste settimane ci dicono che quello che stiamo facendo non è abbastanza". Non sarebbe dovuto cadere nel vuoto quell’appello. Ma intanto contiamo ancora i morti e continuiamo a seppellirli.

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Esplosione: i numeri e il dolore. La stanca liturgia del ‘mai più’ per i morti sul lavoro. Italia assuefatta alle tragedie

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11.04.2024

Suviana, 11 aprile 2024 – I processi, le telecamere e le maglie con impresse le foto dei propri cari morti nella strage e diventati in fretta invisibili, se non fosse per loro – i parenti – che ne tengono viva tenacemente ancora la memoria. Una memoria che – a sedici (quasi diciassette anni ormai) dal rogo della Thyssen, in cui morirono sette operai – si sostanzia anche di un film (‘La fabbrica dei tedeschi’ di Mimmo Calopresti) e di uno spettacolo teatrale.

Perché quanto accadde a Torino fu considerato epocale. In quei giorni, quando sembrava impossibile che una strage del genere potesse avvenire in una grande azienda, in una multinazionale che dovrebbe essere sinonimo (proprio per le sue dimensioni) di sicurezza, si disse con tono perentorio: "Mai più". L’irripetibilità di quella frase sembrava che dovesse essere scolpita. Perché niente di simile sarebbe dovuto più accadere in un Paese civile che ha nell’articolo 1 della Costituzione la frase: "Repubblica fondata sul lavoro".

E invece quel "Mai più" sarà........

© il Resto del Carlino


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