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Renzo Arbore, il clarinetto e quella laurea al Conservatorio

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17.06.2024

La prima passione dell'artista: “Me ne innamorai perché mi somigliava”. Dal jazz degli americani a Napoli al palco di Sanremo

Fu in principio il fastidio quotidiano che affliggeva il dottor Giulio Arbore di Foggia, accorsato odontoiatra (si perdoni l’aggettivo tipicamente meridionale). Un fastidio che, peggio, turbava i suoi pazienti al tempo in cui negli studi dentistici si sentiva spesso gemere e urlare per la minore efficacia di strumenti e anestesie. Era, il molestatore, un principiante di clarinetto che s’inerpicava maldestramente per scale e intervalli alterando la nervatura al vicinato. Sarebbe stato però la fortuna di Lorenzo Giovanni detto Renzo, figlio del dentista e allora sedicenne già accattivato dalla musica, che col disturbatore fece amicizia: “Si chiamava”, ricorda, “Franco Sciagura”. Come? “Sciagura, proprio così, ma nella cerchia dei conoscenti lo chiamavamo Tolomei, cognome della madre. Mi confidò che avrebbe preferito suonare la tromba. Io ne avevo appena comprata una piuttosto economica, sicché gliela diedi in cambio del clarinetto. Diventò un ottimo trombettista jazz”.

Comincia così la love story tra Renzo Arbore e lo strumento grazie al quale frequentò i primi locali da ascoltatore e esecutore, tessendo un successo assai lontano dalla professione paterna e dalla laurea in Giurisprudenza che andò a prendersi a Napoli. La transazione col vicino di casa fecondò l’embrione che avrebbe dato vita un giorno a L’Orchestra Italiana e per cui mercoledì 12 giugno Arbore è stato insignito dal Conservatorio “Umberto Giordano” di Foggia del diploma di secondo livello honoris causa in clarinetto. “Per aver arricchito – è scritto nella motivazione – la diffusione della musica ‘popular’, impreziosita da assoli di clarinetto, all’interno della cultura italiana, adottando nuove modalità di comunicazione che hanno sempre orientato al felice incontro tra cultura e popolarità, nel segno della sperimentazione di nuovi linguaggi”.

Facciamo un lungo passo indietro, perché quando il figlio del dentista comincia a soffiare nel clarinetto è il 1953; un passo tanto per sapere come la prese il dottor Giulio a ritrovarsi, in casa, quel tormento acustico. “Mentiva ai pazienti facendo credere che era sempre il vicino a suonare, ma quando saliva da studio mi diceva: ‘Non potresti suonare più piano?’. E io: ‘Papà, devo imparare Summertime…”.

Perché il clarinetto e non il pianoforte o la chitarra? “Me ne innamorai perché mi somigliava. Nell’orchestra jazz non era il solista principale ma affiancava la tromba, ‘sfruculiava’ trombone e pianoforte, s’inseriva con un ruolo insinuante, un po’ come il giocatore che smista il pallone ai compagni. Se ci rifletto è quel che ho fatto coi miei amici: i programmi alla radio o in tv sono stati jam session, con Benigni, Troisi, Laurito, Frassica, Marenco, Bracardi… Facevo lo ‘sfruculiatore’, lo stimolatore”. Ma alle volte no: nel 1986 presenta a Sanremo, arrivando secondo, un brano intitolato proprio Il clarinetto, protagonista della musica e del testo che è tutto un doppio senso erotico immaginabile, però elegante, nell’anno in cui il Festival è presentato da una conduttrice anche se di parità di genere si parlava molto meno di oggi (Loretta Goggi tenne le redini........

© Il Foglio


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