Piercamillo Davigo, 23 febbraio 2018 (Ansa)

Sabino Cassese, ministro della Funzione pubblica del governo di Carlo Azeglio Ciampi nei primi anni di Tangentopoli (per l’esattezza dal 29 aprile 1993 all’11 maggio 1994), ha appena rivelato al Corriere della Sera che quando nel 1993 ci fu da confezionare la Legge finanziaria, «d’accordo con Ciampi, presi contatto col pool di Milano e Piercamillo Davigo venne in gran segreto a Roma, a lavorare sulle cifre con me».

Nessuno, fino a oggi, aveva mai conosciuto il «gran segreto» della strana «collaborazione tecnica» intervenuta tra quel governo di larghe intese (nonché il primo che dal 1947 aveva visto – sia pure per poche ore – la partecipazione di alcuni ministri post-comunisti) e la magistratura inquirente che in quegli stessi mesi stava «spazzando via» i partiti moderati. Cassese aggiunge che lui e Davigo lavorarono insieme «per un intero giorno», entrando «separatamente e da due ingressi riservati» in un palazzo di via Del Corso messo loro a disposizione dal banchiere Cesare Geronzi. «La finanziaria del 1993», conclude Cassese, «la scrissi dopo quegli incontri».

Separazione dei poteri

Ora, è evidente a tutti, e da anni, che in Italia il principio democratico della separazione dei poteri è tutt’al più una figura letteraria. Basta pensare ai 200-205 magistrati «fuori ruolo», che in buona parte sono collocati nei ministeri e ne occupano militarmente gli uffici legislativi e i gabinetti dei ministri. Almeno 100 di questi magistrati, poi, stanno proprio nel cuore del governo: il ministero della Giustizia. In definitiva, 200 tra pubblici ministeri e giudici condizionano il governo con la loro presenza, occhiuta e asfissiante. Per di più, il passaggio al «fuori ruolo» viene autorizzato dal Consiglio superiore della magistratura. Quindi, a decidere quali magistrati debbano partecipare al potere politico sono le trattative segrete tra le correnti in cui si divide l’ordine giudiziario: i quattro o cinque «partitini» delle toghe, che da sempre fanno avanzare in carriera soltanto gli aderenti fedeli alla disciplina correntizia.

La separazione dei poteri italiana si conferma ancor più una finzione scenica, poi, se si pensa alle scandalose «porte girevoli» che per decenni hanno permesso ai magistrati (no, non quelli in pensione: quelli ancora in carriera!) di farsi eleggere in Parlamento, o di ottenere la presidenza di Regioni, oppure di diventare sindaci di grandi Comuni.

Una mesta conferma

Le commistioni tra politica e ordine giudiziario, insomma, sono davvero un antico scandalo italiano. Per cui nessuno può stupirsi a leggere sul Corriere che Cassese nel 1993 chiedeva delicati consigli legislativi a Davigo, allora «mente raffinatissima» del Pool di Mani pulite. Anche perché un anno dopo, nel novembre 1994, la Procura di Milano, il Pool, Antonio Di Pietro e Davigo, avrebbero fatto cadere il legittimo governo di Silvio Berlusconi. Sarebbe bastata una famosa prima pagina del Corriere stesso, con la notizia di un invito a comparire per il primo presidente del Consiglio della Seconda Repubblica indagato per corruzione (per di più, in una vicenda giudiziaria che poi sarebbe finita in nulla, con un’assoluzione piena). Diciamo che, a ben vedere, siamo di fronte a una specie di assurdo cortocircuito storico-giornalistico.

Certo, agli occhi di qualsiasi vero garantista Cassese non fa una bella figura. Questa sua rivelazione offre soltanto una mesta conferma dell’ormai lunga sudditanza della politica nei confronti della magistratura inquirente: uno dei veleni che hanno massacrato la democrazia italiana negli ultimi trent’anni. A metà di quello stesso 1993 di cui parla Cassese, infatti, il Parlamento di Roma, trascinato per i capelli dal populismo giudiziario creato e gonfiato proprio dalle cronache di Tangentopoli, con la mostrificazione dei politici presunti corrotti e la trasformazione in eroi dei magistrati che li inseguivano, avrebbe in parte abrogato l’articolo 68 della Costituzione, cancellando così parte delle difese che fino allora avevano garantito il gioco democratico dalla magistratura politicizzata.

Da tanto tempo si ciancia di una commissione parlamentare d’inchiesta, un luogo dove finalmente si faccia luce sui misteri di Tangentopoli e sulle troppe anomalie di Mani pulite. Dopo le parole di Cassese, sarebbe proprio il caso di dare un seguito concreto alle troppe parole spese sul tema.

QOSHE - L’ennesima (clamorosa) conferma della sudditanza della politica ai pm - Maurizio Tortorella
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L’ennesima (clamorosa) conferma della sudditanza della politica ai pm

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26.01.2024
Piercamillo Davigo, 23 febbraio 2018 (Ansa)

Sabino Cassese, ministro della Funzione pubblica del governo di Carlo Azeglio Ciampi nei primi anni di Tangentopoli (per l’esattezza dal 29 aprile 1993 all’11 maggio 1994), ha appena rivelato al Corriere della Sera che quando nel 1993 ci fu da confezionare la Legge finanziaria, «d’accordo con Ciampi, presi contatto col pool di Milano e Piercamillo Davigo venne in gran segreto a Roma, a lavorare sulle cifre con me».

Nessuno, fino a oggi, aveva mai conosciuto il «gran segreto» della strana «collaborazione tecnica» intervenuta tra quel governo di larghe intese (nonché il primo che dal 1947 aveva visto – sia pure per poche ore – la partecipazione di alcuni ministri post-comunisti) e la magistratura inquirente che in quegli stessi mesi stava «spazzando via» i partiti moderati. Cassese aggiunge che lui e Davigo lavorarono insieme «per un intero giorno», entrando «separatamente e da due ingressi riservati» in un palazzo di via Del Corso messo loro a disposizione dal banchiere Cesare Geronzi. «La finanziaria del 1993», conclude........

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