Coricelli, l’olio italiano che vuole diventare “cool” come il vino |
Per Coricelli l’olio extravergine non è più da tempo una commodity, ma un prodotto identitario su cui costruire valore, cultura e filiera. “È apparentemente la cosa più semplice, naturale del mondo: un’oliva schiacciata che tira fuori un succo. Poi però le cose un po’ si complicano”, osserva Chiara Coricelli nell’intervista al vodcast Money Vibez Stories, amministratrice delegata dell'azienda di famiglia, sottolineando quanto la vera sfida sia “saper dare il giusto valore, saperlo raccontare adeguatamente”.
Negli ultimi anni l’olio è passato dall’essere “l’olio” generico a un universo di biologico, spremiture speciali, Dop, monovarietali e blend territoriali, con una complessità che il consumatore medio solo ora comincia a decodificare. “Dire compro l’olio non si può più dire, meno male: stiamo lavorando da anni per questo, per raccontare quanti tipi diversi di olio ci sono, quante caratteristiche diverse possono avere oli di regioni e varietà differenti”, spiega.
Il benchmark dichiarato è il vino, sia in termini di percezione che di disponibilità a spendere. “Vorrei che l’olio extravergine diventasse cool come il vino, sempre più olio di altissima qualità, sempre più selezione”, racconta la CEO, immaginando un futuro in cui una “bellissima bottiglia d’olio dai profumi straordinari” diventi il regalo naturale quando si è invitati a cena.
Questa evoluzione richiede di rompere l’abitudine italiana a banalizzare l’olio, complice quel parente che “fa l’olio con le sue olive”, spesso con pratiche non ottimali come la raccolta da terra. “L’oliva è un frutto: quando cade a terra significa che non è più buona”, ricorda, spiegando come questo abbia abituato per decenni i palati a un gusto che non è quello autentico dell’extravergine.
Lo stabilimento produttivo di Coricelli è a Spoleto, in Umbria, dove si trova anche l’uliveto di famiglia, “un piccolo paese ma di una bellezza straordinaria nel cuore verde d’Italia”. La regione è nota per i suoi oliveti storici e per oli di grande intensità, ma l’azienda ha scelto di non trasformare tutto in auto-produzione, preferendo il lavoro di filiera con gli agricoltori.
“Di nostre olive ne facciamo poche, orgogliosamente, perché ci piace lavorare con gli agricoltori”, racconta l’AD, ricordando come l’Italia sia fatta di “piccoli appezzamenti spesso ereditati da persone che tutto avevano voglia di fare tranne l’agricoltore”. La logica degli accordi di filiera è duplice: garantire sbocco commerciale e riconoscere un extra-prezzo che renda sensato mantenere attivi e curati uliveti che altrimenti verrebbero abbandonati.
Gli accordi di filiera servono a difendere la competitività dell’olivicoltura italiana rispetto ai grandi player mediterranei, che hanno investito in colture intensive e meccanizzate. “Sullo stesso appezzamento, una raccolta con macchina scavallatrice ha un costo di gran lunga inferiore rispetto alla raccolta con persone e braccio meccanico su appezzamenti collinari”, spiega, sottolineando quanto la sfida sia industriale prima ancora che commerciale.
Per tenere agganciati i produttori alla filiera serve “una remunerazione aggiuntiva rispetto al mercato”, altrimenti la concorrenza di Spagna, Marocco, Tunisia – più avanzati sulle colture intensive – diventa insostenibile. Il paradosso è che il consumatore fatica ancora ad accettare che “una bottiglia d’olio debba costare più della Coca-Cola, più di qualsiasi prodotto trasformato industriale”, nonostante la complessità e la lunghezza della filiera olivicola.
La questione del prezzo è cruciale: per decenni si è normalizzata l’idea di bottiglie a prezzi insostenibili rispetto alla filiera. “Se qualcosa che ha una così lunga filiera e produzione costa 1 euro, forse un problema c’è da qualche........