I singoli ambiti di cura hanno soppiantato la Medicina interna. Che oggi è spesso relegata a occuparsi di pazienti anziani, con tante patologie diverse o con scarse speranze di guarigione. Ma è un errore. Ecco perché.
C‘è il neurologo che pensa solo al cervello, mentre il gastroenterologo ritiene che su ogni organo comandi l’intestino. Il cardiologo? Beh, lui si sente Dio: pretende che tutti gli riconoscano il suo ruolo. Intanto la Medicina interna, regina di tutte le specialità, creata alla fine del diciannovesimo secolo da medici europei e statunitensi che cominciarono a integrare il metodo scientifico con le conoscenze cliniche, sempre più spesso viene relegata in un angolo: nel ruolo del reparto dove mandare i troppo anziani, o i troppo malati, o i troppo «difficili», insomma quei pazienti che chissà cos’hanno, o chissà se ce la fanno.
Grave errore: perché in questi tempi di iperspecializzazione medica, spesso un sistema di «silos» che non dialogano fra loro, in mezzo ci siamo noi, in balìa di un metodo che ci osserva frammentati e non più nella nostra globalità. A rilanciare il problema nella comunità scientifica internazionale è stata la recente pubblicazione, sullo European Journal of Internal Medicine, di un articolo dal titolo Medicina interna nel XXI secolo: ritorno al futuro, che analizza il ruolo dell’internista oggi: i quattro autori, tra cui Nicola Montano, direttore della Medicina interna-Immunologia e Allergologia dell’Ospedale Policlinico di Milano, si interrogano su come i sistemi sanitari possano affrontare le sfide del domani, e come il ruolo dello specialista internista possa essere la chiave di volta. Perché il malato, è la riflessione, è sempre intero e non mero elenco di organi. E se è vero che,........