Per le sue dimensioni l’hanno soprannominata “la terza democrazia del mondo”, dopo India e Stati Uniti. Il 14 febbraio più di duecento milioni di indonesiani eleggeranno il loro presidente. L’evento merita grande attenzione, perché questo stato del sudest asiatico è una delle potenze emergenti nel mondo multipolare.

Non è facile costruire una democrazia quando si hanno la storia e la geografia dell’Indonesia. La dittatura di Suharto, durata 32 anni e finita nel 1998, è stata particolarmente brutale. Un film straordinario, The act of killing, ne ha ricostruito i metodi.

Da allora l’Indonesia è in fase di convalescenza e cerca di voltare pagina. I due mandati del presidente uscente Joko Widodo, che avrebbero dovuto contribuire a farlo, si concludono con un gradimento dell’80 per cento, un fatto senza precedenti. Ma la sua successione e il suo ruolo risvegliano vecchi demoni.

Il favorito alle elezioni del 14 febbraio è l’attuale ministro della difesa Prabowo Subianto, ex generale ai tempi della dittatura e genero di Suharto. Il suo candidato alla vicepresidenza è il figlio del presidente uscente. Un profumo dinastico, insomma, aleggia sul voto.

Gli indonesiani sembrano accettarlo, tanto che Subianto potrebbe addirittura essere eletto al primo turno, sbaragliando i suoi due avversari. Ma gli intellettuali e la società civile protestano per una serie di violazioni delle regole democratiche. Gli elettori privilegiano la continuità sbandierata dal ministro della difesa e dal figlio del presidente, e chiudono gli occhi sugli aspetti più controversi della loro candidatura.

Il motivo è legato all’eredità lasciata dal presidente uscente: una crescita economica percepibile, una classe media in piena ascesa e un paese che ha un peso rilevante sugli equilibri mondiali. Il segreto di questo successo sono i minerali fondamentali per la transizione energetica, di cui il sottosuolo indonesiano è molto ricco. A cominciare dal nickel, indispensabile per realizzare le batterie. Oggi l’Indonesia ne è il primo produttore mondiale.

Più discreto rispetto ai suoi concorrenti asiatici, l’Indonesia è a tutti gli effetti un paese emergente che aspira a diventare una delle prime cinque economie mondiali entro i prossimi vent’anni. Widodo è riuscito ad attrarre gli investitori cinesi e occidentali, navigando abilmente nelle acque agitate del sudest asiatico.

Il più grande paese musulmano al mondo è anche un caso affascinate di come un grande stato asiatico possa non schierarsi nella guerra sino-americana. Jakarta resta infatti indipendente dagli Stati Uniti (al contrario delle Filippine, che ospitano basi militari americane) ma anche da Pechino, malgrado la linea di treni ad alta velocità tra Jakarta e Bandung inaugurata l’anno scorso: 352 chilometri di modernità cinese nel quadro della nuova via della seta. Nel 1955 alla conferenza di Bandung è nato quel non allineamento che oggi molti vorrebbero vedere rinascere.

Davvero questo equilibrio sarà preservato anche se a vincere le lezioni fosse il ministro della difesa? È uno dei grandi temi di questo voto seguito da vicino da Pechino e Washington.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Gli occhi del mondo sono puntati sul voto in Indonesia

Gli occhi del mondo sono puntati sul voto in Indonesia

Per le sue dimensioni l’hanno soprannominata “la terza democrazia del mondo”, dopo India e Stati Uniti. Il 14 febbraio più di duecento milioni di indonesiani eleggeranno il loro presidente. L’evento merita grande attenzione, perché questo stato del sudest asiatico è una delle potenze emergenti nel mondo multipolare.

Non è facile costruire una democrazia quando si hanno la storia e la geografia dell’Indonesia. La dittatura di Suharto, durata 32 anni e finita nel 1998, è stata particolarmente brutale. Un film straordinario, The act of killing, ne ha ricostruito i metodi.

Da allora l’Indonesia è in fase di convalescenza e cerca di voltare pagina. I due mandati del presidente uscente Joko Widodo, che avrebbero dovuto contribuire a farlo, si concludono con un gradimento........

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