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LIVORNO. Tra i poteri del Comandante d’ una nave militare è decidere quando l’equipaggio, per salvarsi, deve scendere in mare. Ma è anche quello – se lo crede –di restare a bordo in caso d’affondamento e morire con l’unità. La storia ricorda vicende d’eccezionale eroismo, senz’altro meritevoli di essere conosciute. Vi narriamo invece ora quella, forse unica, di una “bolla d’aria” che rigetta in superficie un comandante deciso a morire tra i flutti. 12 Ottobre 1940 – Su nave “Airone”, il comandante Alberto Banfi (uscito dai corsi dell’Accademia Navale di Livorno nel luglio 1923) ingaggia battaglia con forze nemiche decisamente superiori. La nave viene purtroppo danneggiata e lui rimane ferito con tanti suoi uomini. La situazione è disperata. Banfi ordina: “A mare.” Ma nessuno obbedisce. “Ci sono feriti. Non posso lasciarli”, aggiunge. “Allora – l’equipaggio risponde – restiamo anche noi”. “No, voi, no. E’ un ordine”. La nave affonda. Sono le 3,15. Sul mare del canale di Sicilia rimangono soltanto alcune zattere e qualche scialuppa. I naufraghi si chiamano l’un l’altro, per voce, alla ricerca di superstiti. Ad un tratto, il miracolo si compie. Un fatto senza una spiegazione tecnica.

Una colonna d’aria, formata dal gorgo creato dalla nave nell’inabissarsi, risospinge a galla, fra molti rottami, un corpo umano che, giunto alla superficie sbattuto dai marosi, sobbalza, riaffonda, poi galleggia ancora: è il Comandante. Cos’è successo? Sprofondato con la nave e trascinato dal gorgo negli abissi, giunto a 20/ 25 metri di profondità, ecco che un vortice d’aria lo strappa con violenza dalla “bitta” alla quale si tiene avvinto e, bolide umano, lo catapulta verso la superficie. L’acre odore della nafta lo richiama in sé. Qualcuno nella notte chiama aiuto ed invoca il Comandante. Banfi risponde. Resterà in acqua con i superstiti, che via via s’assottigliano di numero, per 36 ore. Alla Commissione d’Inchiesta Banfi spiegherà perché voleva morire. E’ l’unico sopravvissuto nella storia navale di tutti i tempi . Fecero anche impressione i casi del Comandante Lorenzo Bezzi ( sommergibile Liuzzi, affondato nel Mediterraneo orientale il 27 giugno 1940) e del marinaio Vincenzo Ciaravolo, ordinanza del Comandante Borsini. “Messo in salvo l’equipaggio – si legge nella motivazione della medaglia d’oro a Bezzi - dopo aver dato saluto alla voce, divideva volontariamente l’estrema sorte dell’unità, rientrando nello scafo e chiudendo, freddo e cosciente atto, su di sé, il portello della torretta”. “Ricevuto l’ordine di abbandonare la nave gravemente danneggiata, si gettava in mare ma, accortosi che il Comandante rimaneva al suo posto, spontaneamente risaliva a bordo in un generoso slancio di fedeltà e d’altruismo, ben coscio del mortale pericolo cui s’esponeva”. Nei confronti del primo, si parla di “nobile tradizione di eroismo”, la scelta di morire assieme al comandante è definita ”sublime”. C’è un’evidente contraddizione – scrive Angiolo Berti, storiografo ufficiale della Marina Militare - tra l’impegno che si chiede al Comandante di “non morire” e la glorificazione del loro gesto di cui si parla nella motivazione della medaglia d’oro.

In sostanza, ecco la domanda di fondo:” E’ un Eroe od un malato di misticismo od un fanatico, il Comandante che “vuole” morire con la sua nave? Che tipo di uomo è colui che si offre volontario (sottotenente del Cemm, Umberto Grosso), per seguire il Comandante Vittorio Giannattasio nel deposito delle munizioni della nave colpita a Capo Matapan allo scopo di farla saltare, certo che il Giannattasio non sarebbe mai più tornato? “Se il Comandante ha il dovere di mettere in atto ogni tentativo per sopravvivere alla propria nave”, com’è possibile che l’ufficiale, educato al culto dell’obbedienza, violi questo dovere per qualcosa evidentemente di più imperativo? Questo imperativo, evidentemente, è l’essere il Comandante e la “sua” nave una cosa sola, sicché quando questa muore, il Comandante sente che la “campana degli abissi” suoni in quei momenti anche per lui, oltre ogni impegno disciplinare che l’obbligherebbe a salvarsi. Qualcuno ha detto come il Comandante, sulla nave, sia considerato “appena un gradino sotto Dio”.

Testo della medaglia d’oro

«Comandante di una squadriglia di torpediniere, nel corso di una ricerca notturna in prossimità di una base avversaria, riuscito a conseguire l’agognato contatto col nemico, con pronta, abile, audacissima manovra portò la squadriglia all’attacco (...). Inflisse così al nemico danni considerevoli mentre la sua silurante fatta segno alla preponderante reazione del fuoco avversario, veniva ripetutamente colpita. Gravemente ferito e visto vano ogni tentativo inteso a provvedere alla salvezza della torpediniera, dispose il salvataggio dei superstiti. Dopo aver con essi inneggiato al Re ed al Duce, non li seguì sulla silurante accorsa per raccoglierli, ma volle dividere con i moribondi e con i feriti più gravi l’estrema sorte della sua nave che si inabissava. Riportato alla superficie del mare dall’onda stessa che lo aveva sommerso, in uno sforzo sovrumano delle sue già provate energie, riusciva a riunire i superstiti rifugiatisi sulle zattere. Sopravvenute condizioni di tempo avverse, guidò i naufraghi ispirando in tutti, con la sua esemplare forza d’animo, calma e serenità. Ricuperato infine dopo 36 ore da unità nazionali, egli volle e seppe essere ancora di aiuto alla sua gente dando le direttive opportune perché tutti potessero essere salvati. Luminoso esempio di eroico ardimento, di elevatissime virtù militari e di ammirevole spirito di abnegazione. Canale di Sicilia, 12 ottobre 1940.» — 2 dicembre 1940[

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QOSHE - Voleva morire insieme al suo Airone ma una bolla d’aria gli salvò la vita - Gian Ugo Berti
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Voleva morire insieme al suo Airone ma una bolla d’aria gli salvò la vita

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17.01.2024

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LIVORNO. Tra i poteri del Comandante d’ una nave militare è decidere quando l’equipaggio, per salvarsi, deve scendere in mare. Ma è anche quello – se lo crede –di restare a bordo in caso d’affondamento e morire con l’unità. La storia ricorda vicende d’eccezionale eroismo, senz’altro meritevoli di essere conosciute. Vi narriamo invece ora quella, forse unica, di una “bolla d’aria” che rigetta in superficie un comandante deciso a morire tra i flutti. 12 Ottobre 1940 – Su nave “Airone”, il comandante Alberto Banfi (uscito dai corsi dell’Accademia Navale di Livorno nel luglio 1923) ingaggia battaglia con forze nemiche decisamente superiori. La nave viene purtroppo danneggiata e lui rimane ferito con tanti suoi uomini. La situazione è disperata. Banfi ordina: “A mare.” Ma nessuno obbedisce. “Ci sono feriti. Non posso lasciarli”, aggiunge. “Allora – l’equipaggio risponde – restiamo anche noi”. “No, voi, no. E’ un ordine”. La nave affonda. Sono le 3,15. Sul mare del canale di Sicilia rimangono soltanto alcune zattere e qualche scialuppa. I naufraghi si chiamano l’un l’altro, per voce, alla ricerca di superstiti. Ad un tratto, il miracolo si compie. Un fatto senza una spiegazione tecnica.

Una colonna d’aria, formata dal gorgo creato dalla nave nell’inabissarsi, risospinge a galla, fra molti rottami, un corpo umano che, giunto alla superficie sbattuto dai marosi, sobbalza,........

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