Il canto del cactus. I trent'anni dei Calexico

Il deserto e di là dal confine il Messico. Qui nasce, tra country e mariachi, la storica band, ora in Italia con un tour di ben quattro date

Sulla piana si stagliava una piccola estancia dagli edifici ancora fumanti, e lungo gli spezzoni di una palizzata di stecche di cactus erano appollaiati spalla a spalla alcuni avvoltoi che guardavano a est verso il sole promesso, sollevando prima una zampa e poi l’altra e stendendo le ali come mantelli.

(Cormac McCarthy, “Meridiano di sangue”, 1985)

Il serpente a sonagli avanza lasciando una scia di J sul suo cammino e si mimetizza sotto la sabbia; il ratto canguro saltella con le guance piene di semi verso la tana, attento se necessario a buttare sabbia sugli occhi del serpente grazie alla sua lunga coda a ciuffo; il coyote, con i suoi piccoli occhi fiammeggianti e le orecchie tese, è pronto a scattare, fiutando l’eventuale pericolo in arrivo da lontano. Sono tutti e tre alla ricerca di acqua che, eventualmente, assumerebbero mangiandosi a vicenda. Ma c’è qualcun altro, immobile, che osserva tutto ed è lì da più tempo di tutti, umani, animali e fantasmi: sua maestà il Saguaro, il cactus gigante che arriva fino a venti metri di altezza e duecento anni di vita e che, grazie alla sua struttura a fisarmonica, può accumulare centinaia di litri d’acqua quando piove durante la stagione dei monsoni, gonfiandosi e allungandosi fino a pesare una tonnellata.

La batteria nervosa e funambolica di John Convertino sorregge la chitarra ora spagnoleggiante ora elettrizzata di Joey Burns


Benvenuti nel deserto dell’Arizona lungo il confine con il Messico, tra California e Texas, uno dei luoghi più caldi e infernali del mondo. La terra che ha ispirato non solo i crudi racconti della Frontiera del grande “riservato” della letteratura Cormac McCarthy, scomparso di recente, ma anche l’immaginario del cinema western, le serie tv e la musica dei Calexico, una delle band americane più longeve e multiformi. E’ dal cuore di questo sconfinato bacino desertico, per la precisione dalla città di Tucson, cinquecentomila anime e un’ora di auto dal confine, che si alza il canto dolce e sinuoso della storica band di Joey Burns e John Convertino. I due arrivano in questo mese di luglio in Europa per un lungo tour celebrativo dei quasi trent’anni di attività (in Italia per ben quattro concerti, il 4 sono stati a Pistoia e il 5 a Russi, il 15 saranno a Milano e il 17 a Udine). Il loro suono somiglia molto a quello del deserto, dove tutto può accadere all’improvviso: la batteria nervosa e funambolica di Convertino sorregge la chitarra ora spagnoleggiante ora elettrizzata di Burns, e intorno ai due capibanda i fidati compagni di viaggio danno fiato a trombe mariachi e fisarmoniche zigane. Burns, negli anni, ha affinato una voce sempre più presente e viva, e i temi dei suoi testi sono sempre più toccanti e attuali, come la fuga dalla città e il rapporto con la natura selvaggia: “Ho lavato il mio viso nei fiumi dell’impero, ho fatto il mio letto con una cassa di cartone, nella città di quarzo, nessuna novità, nessun nuovo rimpianto”, canta in “Sunken Waltz”, il polveroso walzer in apertura del disco “Feast of Wire” che ha compiuto vent’anni e non li dimostra.

E’ la terra che ha ispirato non solo i crudi racconti della frontiera di Cormac McCarthy, ma anche l’immaginario del cinema western

“Prendi la storia del falegname Mike, che abbandonò i suoi attrezzi e le sue chiavi e partì, il più lontano possibile, oltre le........

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