Quanto può sopravvivere una società solo culturalmente cristiana? Indizi teologici
Non si tratta di far assurgere la fede al mondo della cultura, ma di come si possa affrontare la vita con una speranza di significato
Il 29 maggio scorso sull’inglese Catholic Herald è uscito un articolo intitolato “Quanto può sopravvivere ancora una società ‘culturalmente cristiana’?”. Lo spunto per l’allarme insito in questa domanda è la previsione di un futuro premier dichiaratamente ateo, Keir Starmer, il leader del Labour, che non sarebbe il primo non credente a guidare il governo; “sarebbe però il primo ad ammetterlo apertamente”. “Resta uno shock – commenta l’editorialista – rendersi conto di come il non credere sia talmente diffuso in politica da risultare irrilevante per l’elettorato”.
Non che oltremanica siano tempi di cristianesimo trionfante, ma l’evento suggellerebbe l’avanzata secolare con il risultato che “così ci resta quella cosa ambigua che è il cristianesimo culturale, ossia quanti hanno avuto una famiglia cristiana, hanno una vaga familiarità con le storie della Bibbia, amano l’arte cristiana e si identificano genericamente con un’etica cristiana”. Situazione che potrebbe andar bene ai residui crociani del Belpaese, ma che non trova d’accordo il settimanale britannico, che scrive infatti: “Il cristianesimo culturale non è una fede; è il residuo o l’impronta della fede. Vedremo per quanto tempo ancora la gente continuerà ad avvertire affinità con il cristianesimo senza avere avuto alcun incontro con la sua esperienza né conoscenza della sua visione”.
Il tema della “cultura cristiana” e della sua presenza nel dibattito pubblico era stato sollevato anche su queste pagine da Alfonso Berardinelli un mese prima, il 27 aprile 2024, sulla scia di due articoli, di Pierangelo Sequeri e l’altro di Roberto Righetto, pubblicati su Avvenire.
Così scriveva Berardinelli: “Nonostante oggi, come dice Righetto, sia grave l’‘analfabetismo religioso’, ho l’impressione che un tale analfabetismo faccia parte della stessa cultura: viene soprattutto dallo strapotere dei nuovi media, che stanno conquistando anche i religiosi che vogliono mostrarsi ‘al passo con i tempi’, dal semplice parroco di provincia all’alto prelato con incarichi istituzionali”. E poi, rivolto ai laici: dovreste “chiedere alla Chiesa di nutrire con un po’ più di serietà e di fede la sterile, stremata vita culturale di oggi”, assegnando loro anche un compito: “C’è un rimedio a tutto questo? Si potrebbe ricominciare così: cari intellettuali laici, leggete le Sacre Scritture e i Vangeli! Come capolavori della cultura occidentale”.
Agli estensori delle preoccupazioni sopra esposte vorrei offrire il contributo del dialogo fra tre personalità del mondo cristiano – Julián Carrón, Charles Taylor, Rowan Williams – riportato in Abitare il nostro tempo (che è cosa diversa dal cercare di stare “al passo con i tempi”), saggio della Bur (138 pp., 15 euro) curato da Alessandra Gerolin. Il volume sarà presentato domani alle 19.00 in Triennale, a Milano.
Carrón, teologo e linguista, alla guida di Comunione e liberazione dal 2005 al........
© Il Foglio
visit website