Non solo Raisi: dal presidente della Repubblica islamica, Bani Sadr, al successore designato di Mao, fino a Prigozhin. Incidenti arei misteriosi che hanno cambiato la storia
C’erano degli ostaggi prigionieri da mesi. Stava per scoppiare una delle guerre più lunghe e sanguinose del secolo. C’erano presidenziali Usa all’orizzonte. Del tutto inaspettato sopravvenne un incidente che coinvolgeva elicotteri americani in una delle regioni più impervie dell’Iran. L’anno dopo, il primo presidente della Repubblica islamica, Bani Sadr, scappò rocambolescamente a bordo di un aereo dell’aviazione militare iraniana. Un decennio prima, un aereo di stato cinese era stato abbattuto nei cieli della Mongolia. A bordo c’era il successore designato di Mao, il maresciallo Lin Biao. Si disse che stava scappando verso l’Unione sovietica, allora arcinemica della Cina. Ci sono parecchi misteri irrisolti, da decenni, su “incidenti” in volo. Penultimo quello in cui fu abbattuto Prigozhin, d’ingombro a Putin. Molti hanno a che fare con lotte per la successione al potere.
Era il 25 aprile 1980. Lo ricordo bene perché riguarda il più imbarazzante “buco” giornalistico della mia carriera. Ero inviato a Teheran. Languiva da mesi la vicenda dei 52 ostaggi all’ambasciata Usa presa d’assalto da studenti universitari nel novembre precedente. Si combatteva invece sui monti del Kurdistan iraniano. Avevo deciso di andarci. Mi accompagnò un’amica che conosceva bene il leader del Partito democratico del Kurdistan, Abdul Rahman Ghassemlou. Ne era l’amante. Si chiamava Cornelia. Aveva gli occhi azzurri e la pelle bianchissima. La chiamavamo “la cosacca”. La sua vita è stata un romanzo. Ma di questo vi racconterò, forse, un’altra volta.
Viaggiammo tutta la notte su un autobus di linea. All’arrivo venimmo accolti da peshmerga armati (guerriglieri curdi votati alla morte, questo significa la parola). Con una jeep ci portarono, con un altro lungo viaggio, in montagna. Le montagne del Kurdistan sono brulle e sassose. Non un albero. Ma in primavera si trasformano in un paradiso verde e fiorito. Arrivammo in piena notte. Ci alloggiarono in una capanna di pastori.
L’indomani stesero una tovaglia su un prato fiorito, dove pascolavano e venivano munte delle capre. Ci offrirono tè e yogurt. Arrivò Ghassemlou, con la sua nutrita scorta di peshmerga. Un uomo alto, prestante, con folti baffi neri, simpatico, sorridente, con modi da capo indiscusso. Prima che iniziasse l’intervista avevo chiacchierato con i peshmerga. Erano incuriositi da una minuscola ma potentissima radiolina ad onde corte che avevo comprato al mercato nero. Gliela prestai. Mi dissero che con quella riuscivano a intercettare le conversazioni tra i piloti degli elicotteri iraniani che gli stavano dando la caccia. Stavo intervistando Ghassemlou quando arrivò un peshmerga dicendogli di ascoltare quello che avevano intercettato. “E’ successo qualcosa… nel deserto di Tabas… si sono scontrati degli elicotteri americani… hanno lasciato sul terreno cadaveri di molti marines carbonizzati… forse un raid per liberare gli ostaggi a Teheran”.
Capii che da giornalista ero nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Ghassemlou mi lesse in viso. “So che vorresti tornare immediatamente a Teheran. Ti capisco. Ma non ti posso dare una jeep ora. Di giorno gli iraniani ce le bombardano tutte dagli elicotteri. Ma posso farti viaggiare di notte, col buio…”. Al calare della notte ripartimmo. Si viaggiava a fari spenti, su una mulattiera, sul ciglio di burroni. Riattraversammo le linee lungo le quali si combatteva tra esercito iraniano e guerriglieri curdi. All’alba vedemmo levarsi come dei soffioni bianchi ai due lati della strada. “Ci stanno bersagliando a cannonate”, mi spiegarono i........