Addio alla ragazza yé-yé che ha reinventato il pop al ritmo di valzer, mostrando una femminilità fragile ma rivoluzionaria. La sua carriera musicale, segnata da successi internazionali e un amore travagliato con Jacques Dutronc, incarna il tumulto e la passione di un'epoca, mantenendo sempre una genuina autenticità e introspezione
È il 28 ottobre del 1962, i francesi guardano in televisione i risultati del referendum voluto da De Gaulle che deciderà l’elezione a suffragio universale del presidente della Repubblica. A interrompere l’attesa dello scrutinio passano spezzoni di trasmissioni musicali. Ed ecco, su una giostra piena di vento che solleva le gonne a ragazze dalle chiome cotonate, compare una parigina di diciotto anni, si chiama Françoise Hardy, capelli castani lisci lisci con una grande frangia, labbra carnose nel viso scavato, un’espressione malinconica e imbronciata. Canta un testo scritto da lei, Tous les garçons e les filles de mon âge. Si lamenta che i ragazzi e le ragazze della sua età “hanno tutti qualcuno d’amar”, se ne vanno mano nella mano e fanno progetti per un futuro insieme, e invece lei no, lei è “un’anima in pena” sempre sola, ed è tanto triste “restare da soli così”. La generazione yé-yé mostra il suo lato fragile su un ritmo di valzer che non ha nulla di pop, ma diventa subito un successo strepitoso, e presto rimbalzerà anche altrove e il pop lo reinventerà a modo suo. Del resto Françoise, che suona bene la chitarra, ha fatto buone scuole e conosce le lingue, canterà quel testo in tedesco, inglese, spagnolo e italiano con la sua voce dolce e innocentemente seduttiva che non teme di mostrarsi romantica e, almeno temporaneamente, sconfitta sul piano dei sentimenti. Perché la donna nuova, capace di scrollarsi di dosso vecchi stereotipi, è già nata e non si vergogna di avere ancora un piede nell’infanzia, un altro in una perenne adolescenza e la testa pronta a sognare tutti i sogni possibili, come insegnava Susan Sontag in Notes on “Camp” del 1964, e per camp intendeva “un tipo di sensibilità che si traduce in amore per l’innaturale, l’artificio, l’eccesso”.
L’apripista era stata BB. Simone de Beauvoir l’aveva detto nel ’60 nel saggio Brigitte Bardot e la sindrome di Lolita, in cui analizzava il portato rivoluzionario e il naturale femminismo dell’attrice francese col suo rompere gli stereotipi e mostrarsi eccessiva, libera, persino un po’ crudele verso l’altro sesso. Françoise Hardy però è eccessiva in senso inverso, naturale, timida, sicuramente infantile e in più ha il fisico del futuro, alta e magra come una modella, spigolosa nel corpo e nel carattere, vagamente androgina. L’anno successivo a quella sua fortunata canzone, Mary Quant impone la minigonna e lei può sfoggiarla senza problemi su due gambe perfette, lunghe come pertiche, mentre scala le classifiche anche in Italia con un’altra indimenticabile canzone, Le temps de l’amour: “È l’età dell’amor, l’età degli amici e dell’avventura. Le ferite d’amor non durano che soltanto una sera…”, perché “a vent’anni........