La pace in cui possiamo sperare è quella che si dà quando la forza a disposizione dei diritti è superiore a quella degli oppressori
Poco conta se si tratta del ritorno di incubi scolastici o di passioni giovanili, ma i confronti formali e informali cui ho partecipato in questi ultimi mesi, per strada o in università, in ambienti politici o in spazi ecclesiali, confronti con il passare delle settimane sempre più accesi, mi hanno fatto tornare in mente un interrogativo che con sorpresa avevo incontrato in Kant. Anche la più rigorosa delle filosofie, anzi forse soprattutto quelle, deve fare i conti con la speranza e, soprattutto, deve saper discerne ciò che merita di essere sperato e ciò che non lo merita.
Immanuel Kant definì con chiarezza il programma della modernità. Esso consiste nel tentativo di rispondere a tre domande, un tentativo cui l’intelletto obbliga se stesso.
La importanza delle prime due domande è ancora oggi facile da comprendere. Esse suonano: cosa posso conoscere? Cosa debbo fare?
Meno facile, invece, è diventato comprendere il significato della terza domanda: in cosa mi è lecito sperare?Lo scettico si crogiola nel suo non sperare. Altri, all’opposto, si rincorrono nella gara a chi spera di più: perché porre limiti alla speranza? Tuttavia, lo sperare fino in fondo solo quanto è realisticamente sperabile il non prestare invece alcun ascolto a speranze fittizie fa la differenza. Fa la differenza perché smaschera il cinismo e la complicità con il male tanto di chi non spera quanto di chi si illude.
E’ nei momenti drammatici della storia che il significato........