Fu il primo bestseller della storia ma è un concentrato di stereotipi su donne ed ebrei. La discutibile operazione di ripulitura nella traduzione italiana non ne cambia il senso, semmai rende tutto più fumoso e incongruo
Il bello dei fenomeni di costume è che hanno una durata temporale limitata al momento storico in cui si producono. Esaurito quel momento, cambiano di significato, oppure cadono in disgrazia e vengono dimenticati. In genere, ciò non accade senza una ragione. Per questo, se doveste chiedere oggi a un tizio in mezzo alla strada a che cosa corrisponda il sostantivo, ma anche il suono, di “trilby”, vi risponderebbe un cappello, volendo anche bruttino: ha una forma conica tronca, la falda corta abbassata davanti e rialzata dietro; è tornato di gran moda qualche anno e davvero non se ne comprendono le ragioni, visto che dona a tutti l’aspetto del frescone (nei Cinquanta era il cappello di monsieur Hulot, non c’è bisogno di aggiungere altro).
La protagonista del romanzo di George du Maurier ha dato il nome al popolare cappello. Questo è rimasto del primo bestseller della storia
Gli inglesi lo definiscono un “fedora da gentleman”, e il fatto singolare è che entrambi, fedora e trilby, devono il proprio nome al costume dell’adattamento teatrale di un testo di grande successo della fine dell’Ottocento: Fedora da un dramma scritto da Victorien Sardou per Sarah Bernhardt, all’epoca già entrata nella fase queer del proprio abbigliamento, che in genere disegnava con l’aiuto di qualche grande sarto dell’epoca, spesso Charles Frederick Worth; Trilby dal nome della protagonista, e dal titolo, del primo bestseller davvero popolare della storia. Lo scrisse George du Maurier, nonno di Daphne, futura autrice di “Rebecca” e della “Cugina Rachele”, che in gioventù era stato pittore di belle speranze e denari scarsi a Parigi e in età più matura, anche a causa della perdita della vista dall’occhio sinistro, autore di vignette satiriche e di costume per il “Punch”. Alla scrittura arrivò in età ancora più avanzata e salute malferma, andando come ovvio a pescare nei gagliardi ricordi di gioventù: se un’intera generazione venne sedotta dal mito della bohème non è solo per i racconti di Henri Murger a cui si ispirò Giacomo Puccini, ma per questo romanzo che, due anni prima della messinscena dell’opera, vendette duecentomila copie solo negli Stati Uniti, un’enormità in un paese largamente analfabeta e privo anche dei soldi per cambiare la camicia, dando vita a una vera “trilbymania”. Il cappello ne è l’ultimo vestigio, insieme con una rilevante quantità di stereotipi razzisti su ebrei, minoranze e, va da sé, donne, che, uniti alla qualità non indimenticabile della scrittura, rendono “Trilby” il perfetto esempio di romanzo popolare vittoriano che non ha più senso leggere oggi, a meno di voler verificare come nasca e si formi il pregiudizio sociale ed etnico.
“Trilby” dà vita a Svengali, l’ebreo askenazita malefico, sporco, astuto e manipolatore, come ovvio provvisto di lombrosiano naso........