Trilogia del bevitore naturale: l'epilogo |
La prima volta che ho visto Leo bere un vino naturale non sapeva ancora che lo fosse. Eravamo in una piccola enoteca di quartiere, scaffali di legno, qualche etichetta sghemba infilata tra i Bordeaux polverosi, il solito proprietario che ti chiede come va la vita mentre ti versa qualcosa nel bicchiere. Gli ha messo davanti un bianco velato, un po’ torbido, e gli ha detto solo: “Questo è interessante”. Leo l’ha guardato con diffidenza, poi l’ha annusato con aria professionale improvvisata, come fa chi ha visto fare la scena in un film. Ha bevuto, ha fatto una pausa studiata, e ha detto: “È… diverso”.
Quella parola ha funzionato come un interruttore. Il proprietario ha sorriso, ha abbassato la voce, e ha cominciato il piccolo catechismo: fermentazione spontanea, pochissimi interventi, niente trucchi, solo uva e coraggio. Più parlava, più la schiena di Leo si raddrizzava. Non stava solo bevendo: stava ricevendo un vocabolario. Quella sera ha portato a casa una bottiglia. Non era particolarmente buona né particolarmente cattiva; era, soprattutto, raccontabile.
Poi è arrivata la fase dell’apprendimento accelerato. Nel giro di poche settimane, il suo feed si è riempito di etichette colorate, sedimenti sul fondo, bicchieri contro il controluce. Di giorno faceva il suo lavoro di consulente digitale, tra slide e call; di sera studiava, ma non sui libri. Ascoltava. Il proprietario dell’enoteca, un sommelier amico, qualche vignaiolo incontrato a una fiera: ognuno gli regalava una frase, un pezzo di mappa. “La solforosa annulla il paesaggio.” “Il difetto è una forma di verità.” “O bevi vivo, o bevi morto.” Leo le archiviava tutte e, a casa, le ripeteva a mezza voce, finché non suonavano naturali.
Quando è partito per la collina del Profeta delle Lune, parlava già quasi correntemente. Il viaggio l’aveva organizzato lui, “piccola spedizione di ricerca”. Tre amici, musica in macchina, fuoristrada parcheggiati lungo la strada per la cantina. Io ci ero stato prima; per loro era un pellegrinaggio inaugurale. Davanti alla lavagna con le 30, 50, 70, 90 e 180 Lune, gli altri ancora cercavano di capire la corrispondenza con gli anni; lui no. Leo aveva già deciso che il sistema era affascinante, quindi coerente.
Quando il Profeta ha spiegato che la 70 Lune era “linea di confine tra vino e memoria liquida”, gli occhi di Leo si sono accesi come quelli di uno studente che trova finalmente la materia in cui eccellere. Ha fotografato la lavagna, l’ha postata senza indugio, didascalia: “Ci sono scale temporali che la chimica non può misurare.” Gli altri bevevano; lui, oltre a bere, prendeva appunti invisibili. A fine giornata sapeva già come raccontare la visita a chi non c’era: un racconto pulito, senza esitazioni, in cui le lune non erano solo un’unità di misura ma un argomento identitario.
Qualche mese dopo, l’ho ritrovato al rifugio del Curatore di Esperienze. Questa volta ero io di passaggio; lui sembrava di casa. Era arrivato con un gruppo diverso, “per far scoprire a qualcuno che merita che un altro modo è possibile”. Si muoveva tra le biografie delle mucche con naturalezza, presentava Aurora, Brina e Selvaggia come vecchie conoscenti. Ai nuovi spiegava la differenza tra un formaggio “di semplice montagna” e un formaggio “in cui senti il percorso”.
Il Curatore parlava di percorso di riconnessione alpina; Leo riprendeva la formula e la alleggeriva appena, giusto il tanto che basta per farla diventare condivisibile in una storia. “Qui non fai solo una cena,” mi ha detto, con aria di chi ti svela un trucco, “qui ti allinei.” Non era del tutto chiaro cosa significasse, ma il tono era quello di chi ha capito il gioco e lo rilancia. Nella foto che ha pubblicato quella sera, lui non c’era: c’erano la tavolata, le forme di formaggio e, in primo piano, un calice di bianco lattiginoso. Il testo diceva: “Rurale è chi rurale fa.”
Quando è comparso alla Cantina Civile dell’Apostolo del Reel, sembrava il pezzo mancante di un puzzle. Sapeva già dove mettersi per entrare nell’inquadratura del video senza sembrare che ci tenesse troppo. Ripeteva gli slogan con lievi variazioni personali, come si fa con le citazioni colte. “Nessuna resa alla chimica,” diceva l’Apostolo. “La chimica se la teniamo negli appunti, non nei calici,” aggiungeva lui, mentre gli altri ridevano. Durante un brindisi ha proposto “Al calice liberato, e a chi libera se stesso scegliendo cosa bere”. Una frase che, tradotta, vuol dire poco, ma suonava benissimo.
Non era solo un........