Tra sussidi e working poor, cosa succede se il lavoro si slega dal reddito

Si preannuncia un Natale triste per molti italiani. Con la fine dell’anno cesseranno le erogazioni del reddito di cittadinanza, il cui posto verrà preso dall’assegno di inclusione voluto dal governo Meloni. Il passaggio di consegne, però, non sarà indolore. Secondo uno studio della Banca d’Italia, infatti, a essere escluse dal nuovo sussidio saranno 900mila famiglie, mentre anche quelle che continueranno a percepirlo riceveranno circa 1.300 euro in meno all’anno. Lo stesso rapporto stima che il cambiamento porterà a una maggiore incidenza sia della povertà assoluta (di 0,8 punti) che della disuguaglianza (di 0,4 punti) rispetto alla situazione attuale.

“Poco male” verrà da pensare a più di qualcuno, convinto che i sussidi portino a una disattivazione da parte di chi li percepisce: “Se le persone ricevono meno soldi, saranno di più quelli costretti a darsi da fare e trovare un lavoro”, si pensa. Anche la ministra del Lavoro Marina Calderone sembra in qualche modo condividere questa retorica: il dibattito che ha coordinato alla recente festa-convegno di Atreju aveva il titolo “Giù dal divano: l’Italia si rimbocca le maniche”.

Il pensiero è tanto lineare quanto suadente: se una persona riceve soldi anche senza lavorare, perché dovrebbe cercare un impiego? E quindi perché dovremmo dargli i nostri soldi, così duramente e onestamente guadagnati? Il ragionamento fila – e politicamente paga; molto. Ma è del tutto sbagliato. Lo dicono decenni di dati e meta-studi: i soldi dei sussidi non vengono sprecati e la loro erogazione non disincentiva il lavoro né diminuisce la collocabilità dei percettori.

Se i testi accademici in inglese possono sembrare polverosi e complicati, guardiamo a qualcosa di più semplice: cos’è successo in Italia all’occupazione nel periodo in cui è stato erogato il reddito di cittadinanza, cioè dal marzo 2019 a oggi? Gli occupati nel primo anno sono rimasti stabili, poi sono crollati a causa della pandemia, per poi ancora riprendersi e arrivare a circa 600mila lavoratori in più. E gli inattivi, cioè chi non lavora e non cerca lavoro? L’andamento è stato speculare: stabile il primo anno, picco da pandemia, e poi un costante declino: oggi sono circa 700 mila in meno rispetto a inizio 2019.

Quindi possiamo dire che in Italia il reddito di cittadinanza, che pure è arrivato a sostenere, direttamente o indirettamente, oltre 2 milioni di persone, non sembra avere avuto un impatto negativo sul mondo del lavoro. Invece, soprattutto durante la pandemia ha impedito a circa un milione di persone di cadere sotto la soglia della povertà assoluta. Tuttavia, in termini generali la povertà è aumentata negli ultimi vent’anni, e di molto. Eppure, non abbiamo mai avuto una partecipazione al mercato del lavoro più alta di oggi. Cosa è cambiato, allora? Il lavoro.

Oggi i cosiddetti “working poor” sono quasi il 12% dei lavoratori, per un totale di circa 3 milioni di persone che, pur lavorando, rimangono sotto la soglia di povertà relativa. Ora, molto dipende da cosa si intende per “povertà”, e bisogna anche ricordare che l’Italia è un Paese che mediamente ha un consistente patrimonio familiare. E c’è anche da dire che pure in passato c’era lavoro pagato poco e male, ma restando in famiglie numerose c’era più possibilità di aiutarsi a sbarcare il lunario; oggi invece le “famiglie” povere sono spesso composte da persone sole. E poi, certo, i salari stagnanti e l’inflazione hanno fatto........

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