Screenager e aziende: cosa succede se lavorare diventa una cosa da boomer

Bisognerebbe sempre usare molta cautela quando si parla di generazioni, e ancora di più quando si vuole affrontare il tema del rapporto tra giovani e lavoro. Il rischio infatti di scivolare nel sentito dire, nello stereotipo pigro o nel vittimismo peloso, è sempre dietro l’angolo. Eppure, non si può nemmeno negare che il contesto sociale, culturale, politico abbia un peso importante nel determinare convinzioni e comportamenti degli esseri umani, in particolare se questi hanno – diciamo – tra gli 8 e i 18 anni, quando lo sviluppo cerebrale è massimo da un punto di vista relazionale e sociale. Né che la sensibilità verso il lavoro – per non dire il suo senso – stia cambiando sensibilmente.

Negli ultimi giorni negli Stati Uniti ha preso vita un robusto dibattito sugli effetti della cosiddetta “phone-based childhood”. A fare da innesco è stato un articolo dell’Atlantic che ha ben raccolto una serie di studi e analisi sulla condizione dei giovani e giovanissimi di oggi. Ad allarmare sono soprattutto i dati, eclatanti, dell’aumentare della depressione e dell’ansia, ma ci sono anche quelli che indicano una minore socializzazione, maggiore timidezza, minore attività fisica e persino una minore sessualità. Tutte rilevazioni che sono particolarmente evidenti negli Stati Uniti, ma che si riscontrano in tutto il mondo.

Parliamo di quei giovani nati al più tardi alla fine degli anni 90 e che spesso vengono chiamati “Generazione Z” o “Gen-Z”, ma che qualcuno, con un’efficace crasi, ha chiamato “screenager”. Si tratta infatti di giovani cresciuti e diventati adolescenti sull’onda lunga dell’ottimismo o “inevitabilismo” digitale della fine degli anni 2000, e che per questo si sono spesso trovati ad avere in mano uno strumento touch o a frequentare i social media proprio nell’età in cui lo sviluppo cognitivo e sociale è massimo. A onor del vero, la cosiddetta “pistola fumante” che collega l’esposizione a strumenti e ambienti digitali al diffuso disagio giovanile forse manca ancora, ma gli indizi si moltiplicano sempre più.

Ciò che però credo sia oramai innegabile è che smartphone e social network sono stati quanto meno dei formidabili acceleratori di fenomeni già crescenti, come il declino delle cosiddette strutture intermedie (sindacati, partiti, circoli, club, reti di vicinato, oratori…), l’allarmismo sempre più urlato dei mass-media, la genitorialità sempre più “performante” e allo stesso tempo protettiva nei confronti dei figli. In questo contesto, la micidiale accoppiata di strumenti touch in grado di fornire continue scariche di dopamina e ambienti digitali studiati per dare dipendenza hanno creato quella che prima sembrava una via di fuga ma che alla fine si è rivelata una soffocante prigione. E poi, certo, le crisi economiche e la pandemia hanno fatto il resto.

Oggi quella generazione si trova sempre più a dover fare i conti con un altro momento cruciale della loro vita: l’impatto con il mondo del lavoro. Si tratta infatti di persone che oramai hanno nella maggior parte dei casi scollinato i vent’anni, e quindi o sono già entrati o stanno per entrare in massa nelle aziende e nelle organizzazioni – anche da noi che quei fenomeni di massiccia digitalizzazione li abbiamo subiti qualche anno in ritardo rispetto agli Stati Uniti. E, a quanto pare, l’incontro finora è stato piuttosto problematico: i datori fanno fatica a coinvolgerli e indirizzarli, mentre loro si sentono sempre meno compresi e apprezzati. Quali sono le ragioni di questo scontro?

Proviamo ad analizzarne entrambe le parti. Sempre volendo semplificare e generalizzare molto, e ricordando che se ci sono dei tratti generazionali questi vanno attribuiti più al contesto che alla responsabilità dei singoli, si può forse dire che per quanto riguarda gli screenager si tratta di giovani con scarsa capacità di attenzione e di pazienza, essendo stati poco o per nulla esposti alla noia e all’attesa. Abituati a vedere apparire le cose al loro tocco, vogliono vedere subito gli effetti del lavoro proprio e degli altri (li si sente spesso dire che vogliono avere “un impatto”). Sono poi poco allenati all’interazione di persona, ad affrontare situazioni socialmente difficili, per cui preferiscono di solito sottrarsi al confronto o utilizzare un atteggiamento passivo-aggressivo per allontanarlo. Soprattutto, però, bombardati come sono sempre stati da notizie negative, hanno sfiducia nel futuro, proprio e comune. Tanto da non vederlo nemmeno: qualsiasi cosa oltre l’orizzonte dei tre mesi è nebbia fitta, inconoscibile.

Ci sono però anche potenzialità e lati positivi. Anzitutto sembra una generazione molto etica: tanto meno rispetto ad altre........

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