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Lo tsunami del lavoro si avvicina, e noi non ci stiamo preparando

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02.06.2024

C’è un meme, piuttosto usato on-line, in cui un cane con un buffo cappello è seduto a un tavolo con una tazza di caffè o tè, e mentre l’intera stanza attorno a lui prende fuoco dice che “tutto va bene”. Purtroppo, la maggioranza degli imprenditori, dei politici e dei manager italiani hanno un’età tale per cui i meme sanno appena cosa siano. Per cui potremmo usare un’altra metafora, più vicina al loro immaginario: è come se in una fabbrica stesse suonando un allarme anti-incendio e l’ambiente si stesse riempiendo di fumo, ma tutti gli operai stanno fermi ai loro posti di lavoro impegnati a rispettare i tempi per una commessa importante.

L’allarme in funzione è quello che segnala uno tsunami in arrivo, destinato a travolgere le organizzazioni e la società tutta. Una vera propria rivoluzione, forse ancora più profonda e gravida di conseguenze della cosiddetta “rivoluzione digitale”. Perché se quest’ultima, dal pc all’intelligenza artificiale, ha riguardato e riguarda gli strumenti, quella in corso riguarda invece gli agenti; le persone, i lavoratori. Che stanno cambiando radicalmente in due dimensioni: sia in quella quantitativa che in quella qualitativa.

Partiamo dalla dimensione quantitativa: i lavoratori stanno sparendo. Come ben analizzato recentemente da uno studio Adapt, a causa dell’invecchiamento della popolazione anche se mantenessimo gli attualmente bassi tassi di disoccupazione già nel 2030 avremo 730mila persone in meno nella forza lavoro; nel 2040, meno 2,6 milioni; nel 2050, meno 3,7 milioni – una diminuzione di oltre il 15% della forza lavoro. E si noti bene che si tratta di previsioni con bassissimo margine di incertezza, che un aumento dell’immigrazione o delle politiche a sostegno della natalità potranno solo al massimo contenere. Ma non basta: perché oltre al tema demografico ce n’è anche uno anagrafico. Come ha evidenziato l’Istat nel suo recente rapporto annuale, negli ultimi vent’anni "la forza lavoro risulta invecchiata più velocemente della popolazione: rispetto al 2004, la quota di giovani tra i 15 e i 34 anni è diminuita più velocemente che nella popolazione (-11,5 punti rispetto a -6,3 punti). E l’opposto è avvenuto tra gli ultracinquantenni: più 16,6 contro più 5,3 punti per i 50-64enni, e più 1,6 contro più 4,7 punti per i 65-89enni".

Il fenomeno è evidente anche nel breve periodo. Come sottolineato dal presidente di Adapt Francesco Seghezzi, nell'ultimo anno su 516mila nuovi occupati oltre il 56% hanno tra i 50 e i 64 anni, e un altro 13,6% sono addirittura over65. Questo ci dice due cose, almeno. Primo: le coorti anagrafiche più popolose stanno arrivando al fine vita lavorativo. Secondo: le aziende italiane non stanno cogliendo l’occasione per innovare davvero; per contaminarsi e capire meglio il proprio tempo, preferendo invece continuare a muoversi sul binario del già conosciuto e del capitalismo relazionale. Quindi, la popolazione lavorativa invecchia rapidamente, e ci saranno sempre meno persone a disposizione sul mercato. E arriviamo qui alla terza questione riguardo la dimensione quantitativa: quella delle competenze. Argomento, questo, di gran lunga più discusso, ma spesso con pigrizia e superficialità. Perché si parla ossessivamente di digitale, di intelligenza artificiale, di smart working, e si rimane completamente ciechi o quasi sulle vere dimensioni e dinamiche del nostro mercato del lavoro.

Se è vero, infatti, che nel prossimo futuro la domanda di ruoli a maggior valore tecnico e scientifico aumenterà, questo rimarrà comunque complessivamente un fenomeno assolutamente marginale. Il grosso della forza lavoro italiana è attiva nei servizi alla persona, nel commercio al dettaglio, nella sanità, nell’istruzione, e in secondo luogo nella manifattura. Questi sono spesso lavori che non solo è difficile fare in età........

© HuffPost


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