“Come posso dirlo? Sto finendo le energie”. Guarda dritto in camera Jurgen Klopp, uno degli allenatori di calcio più vincenti su piazza, nel video in cui annuncia che a fine stagione si dimetterà dalla guida tecnica del Liverpool. Viso scavato, abbigliamento tanto casual da sembrare quasi trasandato, sorriso tirato: “Amo ogni cosa di questo club, di questa squadra, di questo team. E sto benissimo, ora – si affretta a rassicurare il tecnico tedesco – Ma so bene che non posso più fare questo lavoro ancora, ancora e ancora”.
In più di otto anni sulla panchina del Liverpool Klopp ha conquistato la Champions del 2019 e il campionato inglese nel 2020, riportando la sua squadra un titolo che mancava dal lontanissimo 1990. Al momento, il Liverpool è anche primo in classifica in Inghilterra. Non solo questo, ma Klopp è anche conosciuto per il suo spirito amabile e rilassato; per il suo essere sempre sorridente e cordiale anche verso la stampa. Allo stesso tempo, in campo è uno che non nasconde le emozioni, facendo trasparire tutto il suo trasporto e il suo amore per il gioco. Vincente, sereno, appassionato. Eppure, esaurito.
C’è qualcosa di molto familiare nelle parole e nel volto di Klopp che annuncia il suo ritiro. A tratti sembra il fidanzato che rompe una relazione lunga senza sapere bene giustificare la scelta (“Dopo tutti gli anni passati insieme e quello che abbiamo affrontato il nostro rispetto e amore è aumentato, e il minimo che ora vi devo è la verità”). In altri momenti, pare il figlio che deve dire ai genitori che no, quell’università a cui tanto tenevano non fa per lui (“Quando ci siamo seduti a parlare di potenziali acquisti, della prossima stagione, mi è venuto in mente il pensiero «non sono più sicuro di essere qui allora» e ne sono rimasto sorpreso anch’io”). Ma l’analogia probabilmente più calzante è un’altra: il lavoro.
È sicuramente una esperienza meno comune, ma sono abbastanza certo che moltissime persone che si occupano di personale nelle aziende potranno cogliere diverse assonanze tra i discorsi di Klopp e i pensieri che molti dipendenti, sia giovani che di lunga data, confessano o lasciano trapelare. “Il lavoro in realtà va bene, il rapporto con i colleghi è ottimo, sento anche di appartenere in qualche modo a questo posto… Ma non ce la faccio più. Sto pensando di mollare”. E infatti, come sappiamo, le dimissioni aumentano – anche se non tanto da chiamarle “grandi” e spesso non vengono date da chi ci si aspetterebbe.
Quali possono essere le radici di questo diffuso quanto indefinibile malessere? Smarcato il tema delle condizioni di lavoro e degli stipendi bassi (tema che certo esiste, ma a cui non facciamo riferimento ora) il primo indiziato è lo stress. Il continuo stimolo a cercare di raggiungere risultati a volte sempre più ambiziosi, la costante pressione sociale a mostrarsi brillanti e sorridenti, l’utilizzo assiduo della competizione per cercare di essere più performanti, sono tutti fattori che alla lunga erodono motivazione e salute. E certamente questo sarà stato un fattore anche per Klopp, da oramai un decennio ai vertici del calcio europeo e mondiale – e che infatti fa trapelare questa motivazione.
E però, a pensarci bene questa spiegazione non sembra bastare. Perché, in effetti, non è sempre stato così: una volta, diciamo circa fino a un decennio fa, si lavorava altrettanto assiduamente e forse anche di più, e la pressione sociale per mostrarsi di successo era forse anche più feroce. Certo, forse il contesto pubblico e mediatico non era così diffuso e oppressivo com’è oggi, ma allo stesso tempo il livello di competizione e di risultati richiesti da parte dei manager era spesso ancora più alto.
Se si pensa alle figure di grande successo del........