Joe Biden e il tramonto del leader gentile

Nel momento in cui scrivo, le voci su un imminente ritiro di Joe Biden si rincorrono. Pare che sia oramai questione di ore prima che il presidente getti la spugna: un esito che sembra ai più tanto naturale da essere scontato. Il che, a guardare le cose da un certo punto di vista, è davvero sorprendente. Biden può vantare risultati come forse nessun altro presidente americano dal Dopoguerra a oggi, soprattutto per quanto riguarda il fronte interno.

In tre anni e mezzo ha preso un paese tramortito economicamente dalla pandemia e ferito politicamente dai fatti di Capitol Hill e lo ha portato a livelli record di occupazione e produttività, oltre a riuscire a far approvare alcune delle riforme più ambiziose della storia recente del Paese. Lo ha fatto quasi sempre con piglio fermo ma gentile, proponendosi come una figura di rassicurante e unitaria, sia verso gli americani che verso gli altri leader nazionali. Eppure.

Eppure Biden è impopolare come nessun Presidente statunitense dal Dopoguerra ad oggi, e persino i suoi sostenitori insistono perché si faccia da parte. Certo, c’è il problema evidente e niente affatto secondario della sua età e salute, ma Biden era già impopolare prima che questo tema deflagrasse. E allora come si spiega? Forse, tra le altre cose, col fatto che, nonostante l’ottima stampa di cui teorie come la “leadership servant” hanno goduto in questi anni, essere “leader gentili” oggi semplicemente non funziona. Per almeno tre motivi.

Il primo è che, in un mondo dominato dall’incertezza, le persone cercano punti di riferimento solidi. Vogliono certezze. O meglio, non vogliono essere quelle che devono interrogarsi sui dilemmi della contemporaneità. Cercare di scioglierne le contraddizioni – per esempio: sono cristiano, ma vorrei far sparire i poveri migranti – vorrebbe dire necessariamente mettere in crisi la propria percezione identitaria. Un leader gentile, un leader che assiste, non appare credibile nel dare risposta a questi dilemmi. Se essere “servant” vuol dire non indicare la via e dire cosa va fatto ma stare a supporto delle scelte e delle decisioni degli altri, allora non si è dei leader, ma dei confidenti, degli psicologi, dei consulenti. Per dirla semplice: in pochi oggi credono che si possano risolvere gli enormi problemi del nostro tempo con i “per favore” e i “grazie”.

Un secondo punto è che viviamo in un’epoca in cui siamo sottoposti a una sovrabbondante flusso di informazioni e abbiamo la possibilità di abitare molti ambienti diversi, sia reali che digitali, in cui essere persone diverse e interagire con persone diverse. Ma noi esseri umani non siamo costruiti per questo: biologicamente ci siamo evoluti per vivere in piccole comunità in cui ci conosce molto bene. Questo comporta che le persone sono alla continua ricerca di autenticità: premiano tutto quello che a primo istinto e sembra reale, non filtrato, immediato. In questo modo devono sforzarsi meno di interpretare l’altro e quindi di modulare la propria comunicazione. Il guaio è che molto spesso l’autenticità viene confusa con la spontaneità. La spontaneità è fare quello che si vuole e si sente, mentre l’autenticità è essere ciò che si desidera e si prova. Per capirci: ruttare o fare una flatulenza è naturale e spontaneo, ma non per questo dovremmo sentirci autorizzati a farlo a tavola o in ascensore. All’opposto, dire “Buongiorno!” sorridendo anche se stiamo passando una brutta giornata non è affatto naturale, ma è socialmente premiato. Tuttavia, se di persona preferiamo quasi sempre chi è davvero autentico, sui media o in politica tendiamo a premiare chi è spontaneo. Perché “parla come mangia” e non dobbiamo sforzarci........

© HuffPost