La giustizia, oltre le tifoserie. Una riforma per dare attuazione alla Costituzione |
C’è qualcosa di curioso, e ormai abituale, nel dibattito sulla riforma della giustizia: si discute come se si trattasse di una partita di calcio. Da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari. In mezzo, poco spazio per le sfumature, per il ragionamento, per l’idea – decisamente meno eccitante – che le riforme istituzionali non servano a “vincere”, ma a far funzionare meglio il sistema.
È forse anche per questo che la riforma viene spesso raccontata in modo caricaturale: come un attacco alla magistratura, come un cedimento alla politica, come una rivincita punitiva. Narrazioni semplici, rassicuranti per chi le usa, ma poco aderenti alla realtà. Se si prova ad abbandonare la logica delle tifoserie, emerge invece un dato più sobrio ma più interessante: questa riforma non riscrive la Costituzione, prova piuttosto a darle finalmente attuazione.
Il punto di partenza è la separazione delle carriere. Non perché giudici e pubblici ministeri siano “nemici”, ma perché svolgono funzioni diverse, costituzionalmente diverse. La terzietà del giudice non è solo una qualità morale, è una condizione strutturale. Rafforzarla significa collocare il giudice in un assetto ordinamentale che renda quella terzietà visibile, percepibile, credibile.
Parallelamente, riconoscere al pubblico ministero una carriera autonoma significa valorizzarne la funzione senza ambiguità. Un PM pienamente identificato con il ruolo dell’accusa è chiamato a misurarsi fino in fondo con la qualità dell’indagine, con la tenuta della prova, con la responsabilità delle scelte investigative. È una funzione che, proprio perché distinta da quella del giudicare, può e deve restare più vicina alla realtà concreta: ai fatti, ai contesti, alle difficoltà dell’investigazione. In questo senso, la diversità dei ruoli non allontana la magistratura dalla società, ma può contribuire a ricucire quel rapporto con il “paese reale” che Piero Calamandrei, nei lavori della Costituente, indicava come essenziale per la credibilità della magistratura.
In questo quadro si inserisce anche la riforma dell’autogoverno e il tema, molto discusso, del sorteggio. Qui conviene evitare sia le demonizzazioni sia gli entusiasmi. Il sorteggio non è una scorciatoia salvifica, ma è un segnale importante: indica la volontà di spezzare dinamiche che, nel tempo, hanno trasformato il correntismo da luogo di confronto culturale a meccanismo di gestione del potere, spesso sganciato da reali differenze ideali. Un correntismo sempre più post-ideologico e, proprio per questo, più opaco.
Se le correnti non svolgono più prevalentemente una funzione culturale, ma sono animate in larga misura da logiche di potere, allora diventa difficile sostenere che debbano godere di una rappresentanza garantita all’interno del Consiglio superiore della magistratura, che è precisamente il luogo in cui quel potere viene esercitato. Il sorteggio va letto anche in questa chiave: come strumento per ridurre il peso delle appartenenze organizzate in un organo che decide carriere, incarichi e assetti di governo della giurisdizione.
Il sorteggio, inoltre, non elimina il merito, perché non interviene sulla selezione dei magistrati né sulle modalità di accesso alla carriera. Opera su una platea già definita........