Carabinieri sul luogo di un delitto a Milano - .
Primi anni ‘80, era il tempo degli eroinomani tirati su all’ultimo momento da un marciapiede, lividi, gli occhi sbarrati. Nei posti di Polizia degli ospedali, all’alba, erano in tanti. Dalla barella i più lucidi, tremanti dentro una coperta, declinavano a fatica nome e cognome, biascicando come ubriachi. Ragazzi di vent’anni. Molti avevano cognomi del Sud, indirizzi di periferie estreme. Figli di immigrati arrivati bambini a Milano. Il destino dipendeva da chi incontravano in cortile, o al bar: ce n’erano di presi, e di lasciati. Cronista principiante della Notte, quotidiano del pomeriggio, attendevo da un poliziotto in quegli uffici pieni di fumo il nome di un morto, e ascoltavo le inflessioni dialettali degli agenti - le stesse degli arrestati.
A Milano li chiamavano ancora “terroni”. Quegli agenti venivano dai medesimi paesi, ed erano emigrati negli stessi blocchi di cemento, vie Gluck tra la Tangenziale e i primi prati. Loro, però, avevano scelto la divisa. Erano quelli che pochi anni prima nelle vie di Milano venivano insultati dagli ultrà di sinistra: “Fascisti!”, urlavano ai figli dei braccianti i figli dei borghesi. Nell’incrociarsi di parlate del Sud, la straniera ero io: che me ne stavo più che potevo zitta, e osservavo ogni particolare. Le braccia viola di lividi dei tossicomani, le giovani facce scarnite. Mi ricordavano certi Cristi di El Greco. Erano anche ladri, o scippatori, certo, eppure su quelle barelle non sembravano che poveri figli disgraziati. Figli di madri e padri che certamente, a quell’ora, li stavano aspettando nell’angoscia, svegli.
Fare la cronaca nera era come guardare nel caleidoscopio di quando ero bambina: forme infinite, che non avrei mai immaginato - ma quanto scuri i colori. Venivo da una Milano beneducata: già mi sarebbe sembrata trasgressione calpestare un’aiuola. Di colpo........