L’ingresso del Pio Albergo Trivulzio a Milano (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

Il Pio Albergo Trivulzio (in sigla: Pat) è una benemerita ancorché piuttosto ammaccata istituzione milanese. Nato dalla donazione di un nobile milanese nella seconda metà del Settecento, ha accolto e assistito decine di migliaia di anziani indigenti nel corso dei decenni. Accorpato amministrativamente coi due storici orfanotrofi meneghini dei Martinitt (maschile) e delle Stelline (femminile) subito dopo l’Unità d’Italia, dal 2003 forma insieme ad essi un’Azienda pubblica di servizi alla persona.

Far tornare i conti alla Baggina (questo il nome con cui l’istituto è popolare fra i milanesi, dovuto al fatto che si trova sulla strada per andare a Baggio) non è mai stato facile, nonostante le sovvenzioni pubbliche di Comune e Regione: l’ultimo amministratore è stato liquidato nell’agosto scorso e al suo posto è stato nominato un commissario straordinario. Questo non ha però impedito all’ente di lanciarsi in servizi sempre nuovi, al punto che oggi può presentarsi come «il primo polo pubblico in Italia, e tra i primi in Europa, per la riabilitazione», grazie a due centri, uno a Milano e l’altro a Merate, che dispongono complessivamente di 385 posti letto.

La promessa di «relazioni solide e serene»

Tanto orgoglioso è l’ente della sua eccellenza in campo riabilitativo, che ha deciso di farla conoscere attraverso una campagna pubblicitaria. E qui casca l’asino. I manifesti – collocati in buona parte lungo le banchine della metropolitana milanese – propongono due slogan altamente equivoci: “Più Autosufficienza per Tutti” e “Più Autonomia per Tutti”. Sotto i due motti stanno due immagini che dovrebbero ispirare: un signore che accenna un passo di danza con una dama avvalendosi di un’avveniristica protesi della gamba destra, un anziano in ghingheri che sta per dare i via ai festeggiamenti per il suo compleanno all’interno della struttura di accoglienza.

Il messaggio concernente l’autonomia recita:

«Il Pat è oggi una realtà unica nella risposta alla urgente necessità di cure riabilitative. Perché tornare ad essere autonomi significa tornare in famiglia, al lavoro, in società e ricostruire con se stessi e gli altri relazioni solide e serene. Per tornare a vivere, in ogni senso».

L’utopia-distopia svedese

“Essere autonomi per ricostruire relazioni solide e serene”: cosa ci ricorda questa frase? Su, un piccolo sforzo. Sei anni fa uscì un film documentario intitolato La teoria svedese dell’amore del regista italo-svedese Erik Gandini (noto fino a quel momento per un altro film, Videocracy, che offriva una critica radicale della televisione commerciale berlusconiana) nel quale si descriveva come la progredita, benestante e socialmente equa Svezia si fosse trasformata in un deserto affettivo di individui solitari e isolati a causa del progetto politico, perseguito dalla socialdemocrazia di Olof Palme, di fare di tutti gli svedesi – uomini e donne, giovani e anziani – soggetti perfettamente autonomi, emancipati dal bisogno di dipendere da un’altra persona.

Perché era tanto importante che gli svedesi si trasformassero tutti in “individui indipendenti” (espressione che ricorre una dozzina di volte nel film)? Proprio per la stessa ragione che oggi dichiarano gli amministratori della Baggina. E cioè perché – secondo i promotori dell’utopia svedese che si sarebbe trasformata in incubo – i rapporti fra le persone diventerebbero autentici solo quando non sono condizionati dalla necessità, solo quando non esistono forme di dipendenza di un soggetto nei confronti dell’altro, solo quando i due sono perfettamente liberi l’uno rispetto all’altro.

Il film mostrava l’inferno antropologico che la realizzazione del programma aveva creato: metà della popolazione che vive da single, donne che si autofecondano con un kit proveniente dalla Danimarca pur di non avere una relazione stabile con un uomo, un quarto degli svedesi che muore in solitudine, spesso senza che i vicini se ne accorgano per settimane. Gli svedesi volevano “essere autonomi per ricostruire relazioni solide e serene” (copyright Pat), e invece si sono ritrovati isolati, privi di affetti e intristiti.

L’esperienza dell’amore

Affermare che autonomia e autosufficienza sono condizioni ideali per rapporti umani pienamente soddisfacenti è il contrario dell’esperienza che normalmente facciamo noi umani e allo stesso tempo equivale a schiacciare i più deboli e infragiliti sotto un macigno di colpevolizzazione: hai perso le tue esperienze di socialità e il calore dei legami affettivi perché non sei autonomo, perché non sei autosufficiente; rimettiti in piedi (col nostro insostituibile aiuto) o la tua vita non sarà più veramente vita (“tornare a vivere, in ogni senso”). E se, nonostante le avanzatissime cure del Pat o di altri, non ci riesco? Devo chiamare il numero di cellulare di Marco Cappato? Il miraggio dell’autosufficienza diventa la trappola psicologica che mi spinge verso l’abisso dell’eutanasia.

Benedetta sia la riabilitazione fisica e psicologica, benedetti siano fisioterapisti e terapisti della psicomotricità, ma forse per apprezzare il valore del proprio corpo che riacquista funzionalità bisognerebbe partire dal contrario della demonizzazione della dipendenza e della non autosufficienza. Bisognerebbe partire dall’esperienza più appagante e inebriante di dipendenza: quella amorosa. Come spiega Alain Finkielkraut, chiamando in causa il filosofo francese di origine russa Vladimir Jankélévitch,

«nell’amore l’alienazione appare migliore della libertà, come scrive meravigliosamente Jankélévitch; anche l’uomo più arido, quando era innamorato, ha conosciuto la grazia di vivere per un altro».

Nell’esperienza amorosa la dipendenza è una condizione felice: non si può fare a meno dell’altra persona, non ci si può concepire senza di lei, e questo non è vissuto come qualcosa di opprimente, bensì come una condizione che eleva e rallegra. L’amore infantile per genitori e nonni è fatto della stessa stoffa: il bambino fa appello a ogni passo agli adulti, ha bisogno di loro per essere se stesso non solo dal punto di vista materiale ma da quello psicologico: vuole essere preso in considerazione, affermato da qualcun altro. E l’accadere della relazione lo soddisfa e lo riempie di tenerezza verso chi risponde alla sua chiamata: ama essere in una relazione di dipendenza.

La “piacevole interdipendenza” di Bauman

Queste esperienze di felice alienazione ci dicono anche una cosa decisiva: se da sempre esistono, è perché anche i “benefattori” dell’innamorato e del bambino le trovano gratificanti per sé. Farsi carico del bisogno insieme materiale e affettivo dell’altro non è gravoso, ovvero nel bilancio della relazione la gratificazione è di molto superiore all’eventuale fastidio. Sorge qui il concetto di interdipendenza, che nel film di Gandini è evocato attraverso un’intervista all’allora novantenne Zygmunt Bauman. Il sociologo polacco propone di sostituire dipendenze e indipendenze, coi loro difetti uguali e contrari, con rapporti di “piacevole interdipendenza”.

In realtà questi ultimi esistono già, sono sempre esistiti e rappresentano la grande maggioranza dei rapporti umani: a quelli insiti nell’amore romantico e nell’amore infantile possiamo aggiungere quelli delle professioni di cura e di soccorso (operatori sanitari, insegnanti, vigili del fuoco, eccetera) e quelli caratteristici del volontariato. Sentirsi utili e apprezzati da qualcun altro, uscire da sé per andare verso l’altro, mettere fra parentesi i propri bisogni e dedicarsi a quelli altrui, procura piacere, sollievo, senso di realizzazione. «C’è più gioia nel dare che nel ricevere», dice san Paolo negli Atti degli Apostoli, e la riferisce come una frase pronunciata da Gesù stesso.

La più altra prestazione possibile

Naturalmente la disabilità da incidente e la fragilità senile sono sfide abissali e supreme sia per chi ne è investito che per i suoi cari. Costringono a fare i conti senza scappatoie con la questione del significato della vita. Per la cultura nichilista dominante sono sfide di fronte alle quali la cosa migliore è dichiararsi sconfitti: la “dignità nel morire” del suicidio assistito afferma in realtà che la vita non è più degna di essere vissuta e che continuare a viverla fino alla fine compromette la dignità del soggetto.

Non la pensava così Viktor Frankl, lo psicanalista ebreo viennese autore di Uno psicologo nei lager (sopravvisse all’internamento ad Auschwitz), che ha descritto la figura dell’“homo patiens”: colui che fa proprio e interiorizza un destino inevitabile, che non ha scelto lui, ma che gli è stato presentato dalla vita senza possibilità di alternative. L’homo patiens accetta come missione, come compito, quello di abbracciare e portare la sofferenza inevitabile che gli tocca. Questa azione così speciale che è l’accettazione della propria croce è moralmente più meritoria dell’azione creatrice che ha per scopo un determinato risultato.

Scriveva Frankl:

«La accettazione, almeno nel senso che essa ci fa sopportare in modo giusto e leale un destino autentico, è essa stessa un’azione; meglio ancora, essa è non solamente “una” prestazione, ma “la più alta” prestazione che all’uomo sia dato di realizzare».

È la più alta perché con essa l’uomo si erge al di sopra dei limiti della circostanza in cui si trova, mostra la sua natura capace di trascendenza. E quindi mostra la sua affinità con la divinità.

La testimonianza di Vittoria Maioli Sanese

Di tutto questo ha reso testimonianza recentemente Vittoria Maioli Sanese, la psicologa della famiglia che ci ha lasciati nel gennaio scorso, col modo in cui ha vissuto la circostanza della sua malattia mortale:

«Come voglio questo tempo che è per me? È davvero il mio tempo e la mia vita? Ho già ricevuto una grande grazia: fin dall’inizio non ho mai pensato che fosse contro di me, che fosse un nemico, anzi, da accogliere e da vivere fino in fondo. Quello che sto vivendo non ha intaccato nemmeno per un secondo la mia serenità e la mia certezza, anzi è come aumentata la mia letizia perché questo ospite inatteso permette di trovarmi faccia a faccia con Cristo presente. […] Ho sempre pensato che il punto centrale del nostro esistere e della nostra libertà è il modo come trattiamo noi stessi e perciò anche gli altri. Ora questo non basta più. Ho capito che resta comunque una distanza tra me e Cristo. Ora questa distanza non regge più perché Cristo o diventa il senso profondo e la consistenza del mio male oppure questo stesso male diventa un nemico».

Nessuna autonomia, nessuna autosufficienza potrà mai conferire al soggetto una tale grandezza.

@RodolfoCasadei

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No, agli anziani non serve l’autonomia «per tornare a vivere»

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18.02.2024
L’ingresso del Pio Albergo Trivulzio a Milano (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

Il Pio Albergo Trivulzio (in sigla: Pat) è una benemerita ancorché piuttosto ammaccata istituzione milanese. Nato dalla donazione di un nobile milanese nella seconda metà del Settecento, ha accolto e assistito decine di migliaia di anziani indigenti nel corso dei decenni. Accorpato amministrativamente coi due storici orfanotrofi meneghini dei Martinitt (maschile) e delle Stelline (femminile) subito dopo l’Unità d’Italia, dal 2003 forma insieme ad essi un’Azienda pubblica di servizi alla persona.

Far tornare i conti alla Baggina (questo il nome con cui l’istituto è popolare fra i milanesi, dovuto al fatto che si trova sulla strada per andare a Baggio) non è mai stato facile, nonostante le sovvenzioni pubbliche di Comune e Regione: l’ultimo amministratore è stato liquidato nell’agosto scorso e al suo posto è stato nominato un commissario straordinario. Questo non ha però impedito all’ente di lanciarsi in servizi sempre nuovi, al punto che oggi può presentarsi come «il primo polo pubblico in Italia, e tra i primi in Europa, per la riabilitazione», grazie a due centri, uno a Milano e l’altro a Merate, che dispongono complessivamente di 385 posti letto.

La promessa di «relazioni solide e serene»

Tanto orgoglioso è l’ente della sua eccellenza in campo riabilitativo, che ha deciso di farla conoscere attraverso una campagna pubblicitaria. E qui casca l’asino. I manifesti – collocati in buona parte lungo le banchine della metropolitana milanese – propongono due slogan altamente equivoci: “Più Autosufficienza per Tutti” e “Più Autonomia per Tutti”. Sotto i due motti stanno due immagini che dovrebbero ispirare: un signore che accenna un passo di danza con una dama avvalendosi di un’avveniristica protesi della gamba destra, un anziano in ghingheri che sta per dare i via ai festeggiamenti per il suo compleanno all’interno della struttura di accoglienza.

Il messaggio concernente l’autonomia recita:

«Il Pat è oggi una realtà unica nella risposta alla urgente necessità di cure riabilitative. Perché tornare ad essere autonomi significa tornare in famiglia, al lavoro, in società e ricostruire con se stessi e gli altri relazioni solide e serene. Per tornare a vivere, in ogni senso».

L’utopia-distopia svedese

“Essere autonomi per ricostruire relazioni solide e serene”: cosa ci ricorda questa frase? Su, un piccolo sforzo. Sei anni fa uscì un film documentario intitolato La teoria svedese dell’amore del regista italo-svedese Erik Gandini (noto fino a quel momento per un altro........

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