Luciano Canfora (Ansa)

Nell’ambito della discussione politica bisognerebbe cercare di evitare le querele per diffamazione. La vitalità del dibattito pubblico e la buona salute della Repubblica hanno bisogno della libertà di espressione, hanno bisogno di attori che non risparmino i giudizi sugli atti e sulle affermazioni altrui, che possono essere controbattuti e confutati dall’interlocutore, oppure accettati e fatti propri. Normalmente i giudici chiamati a sentenziare in cause di diffamazione conseguenza di scontri politici accalorati tendono per quanto possibile a non dare ragione ai querelanti, proprio per non costringere in una camicia di forza il dibattito politico, che in una democrazia che vuole essere tale deve potersi esprimere senza il timore di sanzioni incombenti.

Questo non significa che nello scontro politico verbale tutto debba essere permesso. C’è un uso del linguaggio accusatorio verso gli avversari politici che non ha nulla di ingenuo e che non ha nulla a che fare con la schiettezza. Si tratta del linguaggio che demonizza l’avversario, linguaggio che non è pensato per la discussione, ma per etichettare l’avversario come qualcuno con cui non si può discutere, e che va necessariamente tolto di mezzo perché il dibattito politico possa continuare.

L’avversario come male assoluto

In questo senso la violenza verbale è il terreno di coltura della violenza fisica, come insegna la storia del XX secolo: il linguaggio violento dei comizi di Lenin e di Mussolini sono la premessa del terrore cekista e dello squadrismo delle camicie nere. Descrivere i propri avversari politici come l’incarnazione del male assoluto è funzionale alla loro eliminazione fisica, che non avrà luogo solo a discrezione dell’accusatore, e solo se l’avversario rinuncia pienamente all’agire politico e si sottomette di fatto all’egemonia dell’accusatore. Perciò sono non solo legittime, ma indispensabili, le querele per diffamazione contro chi dà del “nazista” a chiunque non gli vada politicamente a genio. I destinatari di tali accuse hanno non solo il diritto, ma il dovere di denunciare per diffamazione coloro che utilizzano questo tipo di termini, e il novero di coloro che hanno il diritto/dovere di querelare include anche ministri e capi di governo.

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Perciò bene hanno fatto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida a intentare causa per diffamazione nei confronti di Luciano Canfora e Donatella Di Cesare che li hanno etichettati rispettivamente di «neonazista nell’anima» e «governatore neo-hitleriano», e patetico è stato il tentativo dei due docenti universitari andato in scena l’8 aprile scorso presso la sede romana della Fnsi di presentarsi come vittime di «intimidazioni», «epurazione» e «censura».

Donatella Di Cesare (Ansa)

È giusto picchiare i neonazisti

Nel corso della conferenza stampa, promossa dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) e conclusa da un intervento del presidente della stessa associazione, Gianfranco Pagliarulo, Donatella Di Cesare ha avuto la spudoratezza (tipica di chi scrive commossi tweet di commemorazione per la morte di brigatisti rossi che hanno regalato dolore e pianto) di ribaltare le carte in tavola, affermando che le querele in oggetto hanno la funzione di «stigmatizzare l’avversario politico, che quindi appare non più un interlocutore da confutare, ma un nemico da trattare con misure punitive».

Stigmatizzare, anzi demonizzare l’avversario politico per farlo apparire un nemico con cui non si può discutere è esattamente la tattica politica a cui fanno ricorso tutti coloro che danno del nazista a chi ha idee e comportamenti politici diversi dai propri. La “reductio ad Hitlerum” (l’espressione è di Leo Strauss), praticata non solo in Italia, è fatta proprio per delegittimare l’avversario politico e per indicare alla folla il reprobo da linciare almeno metaforicamente, salvo poi veder spuntare da qualche parte prima un Christian Raimo (puntualmente ospite televisivo di La7) che spiega che è giusto picchiare i neonazisti ovunque si trovino, dunque non solo in Ungheria ma anche a Palazzo Chigi, e poi un domani in un crescendo brigatisti rossi o di altra sigla che passeranno dalla metafora ai fatti brutali e irreversibili. E dei quali si potrà sempre twittare che avevano ideali giusti ma metodi sbagliati.

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il ministro Francesco Lollobrigida (Ansa)

Solidarietà ai bersagli

Gli animatori della conferenza stampa romana hanno più volte manifestato sconcerto per il fatto che ad essere querelati da potenti governanti siano semplici e indifesi docenti universitari, ma anche questo vittimismo rappresenta un ribaltamento dei dati di realtà: le accuse di “nazismo” rivolte a Meloni e Lollobrigida assumono carattere di credibilità, agli occhi del pubblico generico e dei semplici, proprio perché provengono da intellettuali (Liberation ha definito Luciano Canfora «uno dei più grandi intellettuali italiani»), ed è proprio il fatto che l’intelligentsia addita alcuni politici come la reincarnazione del male assoluto che crea la base per la legittimazione dell’uso della violenza nei loro confronti. Lo dice “la scienza”: il governo italiano è condotto da nazisti. E che cosa si fa coi nazisti, si discute? No, si imbraccia il mitra e si lanciano le granate, come hanno insegnato i partigiani di tutti i paesi occupati dalle forze hitleriane.

Perciò appare qualcosa di più di una curiosa coincidenza il fatto che la conferenza stampa sia stata organizzata dall’Anpi: Pagliarulo si è premurato di spiegare che l’associazione dei partigiani ha deciso di venire in soccorso dei querelati perché nel suo statuto c’è l’impegno a promuovere la Costituzione italiana, e nella Costituzione italiana all’articolo 21 c’è il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, libertà che Meloni e Lollobrigida vorrebbero negare a Canfora e Di Cesare. A parte che sarebbe curioso vedere come reagirebbe a livello giudiziario Pagliarulo se in nome della libertà di espressione fosse accusato che so, di essere un fiancheggiatore degli infoibatori del 1945, non ci vuole molto a capire che il sostegno dell’Anpi a due professori che accusano il governo italiano di neo-nazismo rappresenta una ratifica di quelle stesse accuse e la manifestazione di una disponibilità – questa sì piuttosto intimidatoria – a rinnovare gli ardori partigiani in questa terza decade del XXI secolo.

In conclusione, Canfora e Di Cesare non sono vittime di tentativi di censura e di epurazione da parte di un potere dai riflessi autoritari, ma persone ben consapevoli che la gravità delle loro parole mette a rischio l’incolumità delle persone che loro accusano, ed è proprio per creare un clima di tensione e per spingere l’avversario a sottomettersi che utilizzano il linguaggio demonizzante nazificante. La solidarietà va riservata ai bersagli della loro tattica politica, non certamente a loro.

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Ma quale censura, Meloni ha ragione a querelare Canfora

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12.04.2024
Luciano Canfora (Ansa)

Nell’ambito della discussione politica bisognerebbe cercare di evitare le querele per diffamazione. La vitalità del dibattito pubblico e la buona salute della Repubblica hanno bisogno della libertà di espressione, hanno bisogno di attori che non risparmino i giudizi sugli atti e sulle affermazioni altrui, che possono essere controbattuti e confutati dall’interlocutore, oppure accettati e fatti propri. Normalmente i giudici chiamati a sentenziare in cause di diffamazione conseguenza di scontri politici accalorati tendono per quanto possibile a non dare ragione ai querelanti, proprio per non costringere in una camicia di forza il dibattito politico, che in una democrazia che vuole essere tale deve potersi esprimere senza il timore di sanzioni incombenti.

Questo non significa che nello scontro politico verbale tutto debba essere permesso. C’è un uso del linguaggio accusatorio verso gli avversari politici che non ha nulla di ingenuo e che non ha nulla a che fare con la schiettezza. Si tratta del linguaggio che demonizza l’avversario, linguaggio che non è pensato per la discussione, ma per etichettare l’avversario come qualcuno con cui non si può discutere, e che va necessariamente tolto di mezzo perché il dibattito politico possa continuare.

L’avversario come male assoluto

In questo senso la violenza verbale è il terreno di coltura della violenza fisica, come insegna la storia del XX secolo: il linguaggio violento dei comizi di Lenin e di Mussolini sono la premessa del terrore cekista e dello squadrismo delle camicie nere. Descrivere i propri avversari politici come l’incarnazione del male assoluto è funzionale alla loro eliminazione fisica, che non avrà luogo solo a discrezione dell’accusatore, e solo se l’avversario rinuncia pienamente all’agire politico e si sottomette di fatto........

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